Montagna madreOltre il terremoto

Se cammini il terremoto resta indietro

Passato un anno le disgrazie come il terremoto non si celebrano e non si giudicano. Semmai si lavora, come sempre, si piange e si prova a sorridere, si suda e si prega. S’impreca e si spera. Come sempre. E chi non è capace di fare queste cose, semmai, le racconta.

Racconta quello che vede e chi incontra camminando per le strade e per i sentieri dei Sibillini, un’altra volta, come già qualche mese fa, come qualche settimana fa. Mai camminato così tanto intorno ai Sibillini come in questi ultimi mesi, in effetti.

Ma è camminando che vedi meglio, che incontri e provi a capire. A capire che questi luoghi sono bellissimi e terribili, contraddittori, come sempre. Fin dai tempi del Guerrino e delle fate.

È camminando che vedi un borgo, come Preci, come Campi, come Todiano e Abeto, come Visso, Pieve Torina e Muccia, che da lontano ti sembra perfetto, luminoso, in equilibrio e in armonia tra boschi e pascoli montani. Ti avvicini, lo sfiori e intravedi le oscurità dai fori sulle pareti, le penombre d’abbandono, le pietre in terra al posto dei giochi dei bambini e delle chiacchiere delle comari. Ti sembra che ci sia stata la guerra, ti sembra che ci sia stato un rastrellamento. Che forse c’è stato. E ti chiedi pure, con la follia montana, se non ci fosse tutta questa enorme macchina della ricostruzione, se avessero lasciato fare, magari dando solo dei contributi alle famiglie…se ne sarebbero andati lo stesso gli abitanti di Visso? O forse sarebbero tutti qui con le pale e con i ballini di cemento a rimettere insieme i cocci?
Non trovi strano che uno stato liberista, in un mondo liberista sia capace solo di sfornare leggi (summum ius, summa iniuria) per complicare le cose già complicate? E che non lasci nulla all’iniziativa dei privati montani? Neanche costruire una casetta di legno, neanche scegliere di mettere un capanno per gli attrezzi accanto alla Sae, o un caminetto dentro? In tutte le Sae c’è (di serie) uno schermo Led 32 pollici, ma non il camino. Come potrà sopravvivere a tutto questo la già moribonda cultura di montagna?, dice il sindaco di Visso.

Poi attraversi la solitudine dei sentieri, che pure in passato tanto t’affascinava e ti senti il cuore stretto. Poi vedi la luce che carezza le pareti del monte Bove e pensi che anche questo terremoto è una piccola parentesi e che la bellezza, prima di tutto la bellezza, riabiterà queste contrade e ne ricostruirà i paesaggi.

Poi trovi un bar aperto, appena fuori dalla zona rossa. E le facce sorridenti, disincantate e schiette di chi sta ancora qui, di chi ha la fortuna di continuare a lavorare qui. E pensi che il terremoto non è una storia, ma centomila storie differenti.

È la storia di Ida di Fiordimonte che il 30 ottobre per poco non resta sotto i mobili della cucina, che a gennaio per poco non rimane sepolta dalla neve, ma sta ancora qui e ti dice che lavora dalla mattina alla sera, tra i pranzi dell’agriturismo e le 150 pecore da governare. Che le porta sulla montagna di Fiastra, là sopra, dove tira tanto, tanto vento, fiju miu! Che lei si ripara dietro i ginepri, che sarà pure tanto rustica, ma che insomma, stare lassù me piace tanto!
È la storia di Maria Luisa di Arquata, portata al mare dopo il terremoto di agosto e che ancora sta lì, imprecando contro burocrazia e promesse fasulle, ma che non appena avrà una Sae ritornerà, nonostante tutto.
È la storia di Marco, giovane allevatore dei piani di Macereto in quella terra sospesa, gli alti pascoli tra Cupi e il Bove, che non si arrende, ma rilancia tra yurte, megastalle altoatesine e pecore sopravvissane.
Sono le storie fantastiche che Cesare racconta davanti alla mole sbarrata del santuario di Macereto, dove – anche qui – tutto appare sospeso: tra il verde brillante di prati che potrebbero essere irlandesi, le bianche pietre dell’ottagono rinascimentale e le rocce soprastanti quasi dolomitiche, perché meravigliarsi se tra Guerrino, Sibilla e Tannhauser scopri legami inaspettati e tra i Sibillini trovi l’anima (o l’inconscio) della cultura europea, accanto al fatalismo dei marchigiani?
È la storia di Luciano, Maurizio, Paolo che da musicisti e artisti provano a fare dell’epicentro, un EpiCentro di cultura dando la scossa (buona) che rivitalizzi i paesi abbandonati.
È la storia dei giovani e delle associazioni di TerreInMoto che intanto sfilano tra la Maddalena e Pieve Torina per denunciare la burocrazia come nemica della montagna, per dire che bisogna amare e riprogettare questa terra e che comunque le Sae, pur in ritardo, non basteranno, ma che le parole d’ordine devono essere, non possono che essere: tornare, resistere, ricostruire.
E intanto camminano, anche loro. Guai a fermarsi. Sennò il terremoto ti raggiunge di nuovo!

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