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Le storie di Filippo che sente le voci delle montagne

Ci sono voci talmente flebili che quasi non si sentono più. Si confondono tra i rumori del traffico, la musica dalle cuffie dell’Iphone, il volume della televisione. Eppure ci sono. Filippo Filipponi, per esempio, le sente. E non ha poteri paranormali. Piuttosto è un collezionista di storie, un cercatore delle cose piccole e sconosciute. O meglio, è una persona capace di vedere ancora le tante trame che compongono l’ordito del mondo in cui viviamo.
Filipponi, 53enne originario di Montefranco, passa il tempo libero alla ricerca di narrazioni sbiadite e meravigliose. Gira per la bassa Valnerina, per la Valserra, o per i Martani con un taccuino e un registratore; interroga gli anziani, si fa prestare i loro ricordi, li ricuce e li conserva come un tesoro.
“Non sono un antropologo, non ho studiato all’università, ma ho letto tanto e  soprattutto voglio bene alla mia terra e alla sua gente”, dice sorridendo.
Ha pubblicato diversi libri, scritti con grande rigore e serietà. Si è occupato di eremi e di antiche chiese ormai quasi dimenticate e ora sta lavorando ad una pubblicazione sul culto di San Michele. Ma soprattutto ha incontrato tante persone nei piccoli borghi e nei paesi di montagna e ha ascoltato le loro voci raccontare storie in via di estinzione. “Queste storie, poesie, preghiere, questi racconti di vita di cinquanta, sessanta, cento anni fa, ritrovano la loro freschezza sulla bocca di anziani capaci ancora di recitarle a memoria; ma purtroppo rischiano di scomparire con loro, per sempre”.
Così, con grande umanità e umiltà, sulla scia di ricercatori del calibro di Valentino Paparelli, o di Mario Polia, con un metodo simile a quello usato da Sandro Portelli per raccontare Terni in “Biografia di una città”, Filipponi cerca di evocare la memoria nelle voci dei luoghi. “Ho potuto parlare con l’ultima abitante del borgo dello Scoppio nel comune di Acquasparta, Consiglia Morichetti, che mi ha raccontato la storia di Cinicchi e Citarea e della grande quercia con le radici piene di marenghi”.
”A Montefranco Antonio mi ha cantato in rima le vicende delle elezioni del ’46 e le avventure del bandito Giuliano e ho rimesso insieme la tradizione del Carnevale morto, quando un uomo con la farina sulle guance fingeva di essere il cadavere del Carnevale appena terminato e qualcuno commentava che sì, Carnevale era morto, ma con soddisfazione”.
“A Polenaco, in Valserra, tre anziani di più di 80 anni mi hanno recitato le diasille, preghiere in latinorum che deriva da dies illae”. Una di queste invoca un curioso padre nostro vergine (“Per lu padre nostru vergine e per chi lo sa bendì, le porte del paradiso se devono aprì, con mille chiese e una sedia d’oro…”), un’altra un “palummittu, palummittu (una colomba) che ce porti in quistu pizzu”, dove c’è un bel bambino “biancu, rosciu e crisciolino” .
“A Polino mi hanno narrato dei riti mezzo pagani e mezzo cristiani davanti all’eremo di Sant’Antonio con la raccolta delle fronde di leccio. A Vallo di Nera ho ascoltato le poesie di Riziero pastore- poeta transumante in Maremma”.
Un viaggio tra gente che viveva e vive ancora di schiettezza e autenticità. Ma a che cosa serve tutto questo lavoro?
“A capire meglio come siamo arrivati fin qui, a conservare i saperi popolari, mettendoli a disposizione di tutti: una comunità senza radici è come una casa senza fondamenta”. Parola di Filippo, il cercatore di storie.

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Filippo Filipponi con la sua informatrice allo Scoppio

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