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Una tempesta d’Appennino: la Cascata delle Marmore

La Cascata delle Marmore è una cartolina, oppure lo sfondo ideale d’un selfie, senza dubbio tra i più belli che si possano scattare in Appennino. Ma è anche tante altre cose.

Per cercare di capirle, o almeno d’intuirle, bisogna andare a trovarla appena sveglia, anzi, quando non è ancora scesa dal letto, in una gelida mattinata d’inverno.

Fino alle 12 in effetti, lei non si concede, perché – come tutti sanno – la sua bellezza è a intermittenza.
La Cascata è una sorta di Doctor Jekyl e Mister Hyde: bella e vaporosa, oppure sotterranea e macchinosa.

La Cascata delle Marmore, ovvero la Cascata di Terni, è davvero tante cose: una forza della naturaorribilmente bella, come diceva Lord Byron. Oppure un leone domato, da mostrare ai bambini come in una gabbia, o in un circo.
È il punto di snodo dei bacini idrografici dei più importanti fiumi del centro Italia, il Velino, il Nera e, quindi, anche del Tevere.

È la soluzione umana a un problema naturale e – al tempo stesso – una meraviglia della natura.
È forza motrice, oppure tempesta. E’ il fascino di un arcobaleno e l’utilità di una turbina, sempre agli estremi, comunque.
Quando tutto è gelato, come in questa mattina invernale, i turisti ancora non ci sono, i sentieri che abbracciano la cascata sono deserti e bianchi di brina.

Le paratie a monte sono quasi del tutto serrate, di acqua ne cade poca, ma sufficiente a creare una scenografia suggestiva, seppur diversa da quella consueta, ritratta in migliaia di foto. Così doveva essere all’inizio quando il Velino impaludava la piana dei Sabini e l’acqua scendeva dal costone delle Marmore in mille rivoli, e con calma, come sa essere calma l’acqua, trovava comunque il modo di colare e calare, per congiungersi con il Nahar, l’impetuoso e affascinante creatore della valle di sotto.

Poi sono successe tante cose, sono arrivati gli ingegneri dei Romani, le dispute giudiziarie sull’acqua tra ternani e reatini con Cicerone a fare l’avvocato, i Papi e i loro architetti, gli estasiati viaggiatori del Grand Tour, i pittori plenaristi alla ricerca d’ispirazione nella valle incantata. Infine è stato il turno delle industrie grandi e voraci, divoratrici d’elettricità, delle centrali e delle condotte forzate…

Tutto intorno a lei, la Cascata.

Non un fenomeno naturale, ma neanche un parco acquatico, dunque.

La Cascata delle Marmore non è l’Aquafan di Riccione: è piuttosto il frutto di una lotta titanica e di un lungo e laborioso patto tra l’uomo e la natura, come se ne sono fatti di continuo nella storia dell’umanità.

La cascata gelata, la cascata ferma di questa mattinata d’inverno, insegna semmai che con la natura si possono fare patti, ma non si deve giocare, perché il leone, anche se in gabbia è pur sempre un leone ed è la sua essenza che merita rispetto.

E in questa massa d’acqua incanalata, ingabbiata, sfruttata e ammaestrata, non possiamo perciò vedere solo la vittoria dell’uomo, ma dovremmo soprattutto intuire l’immagine della potenza della natura e del suo archetipo, misurando le nostre paure ancestrali, il timor panico, “affascinando l’occhio col terrore“.

Così tra un selfie e l’altro dei suoi 400mila visitatori paganti annui, nei secondi di suspence successivi al suono delle tre sirene, che come sempre annunciano l’apertura della cateratta, la preghiamo di riportare un po’ d’incanto anche tra queste montagne, spina dorsale di un mondo sempre più disincantato. Magari con uno dei suoi arcobaleni, quelli che – come scriveva Lord Byron – sembrano l’immagine terrena dell’Amore che sorveglia la Follia, in questa piccola, ma straordinaria tempesta intermittente d’Appennino, orribile e meravigliosa, come tutte le tempeste.

CHILDE HAROLD’S PILGRIMAGE
IV canto
LXIX
Rimbombo di acque! Dalla scoscesa altura il Velino
fende il baratro consunto dai flutti. Caduta di acque!
Veloce come la luce, la lampeggiante massa
spumeggia, scuotendo l’abisso. Inferno di acque! là
dove queste urlano e sibilano e ribollono nell’eterna
tortura; mentre il sudore della loro immane agonia,
spremuto da questo loro Flegetonte, abbraccia
le nere rocce che circondano l’abisso,
disposte con dispietato orrore,
LXIX
e sale in spuma verso il cielo, per ricaderne in un
incessante scroscio, che, con la sua inesausta nube
di mite pioggia, reca un eterno aprile al terreno
attorno, rendendolo tutto uno smeraldo: – quanto
profondo è l’abisso! E come di roccia in roccia
il gigantesco Elemento balza con delirante salto,
abbattendo le rupi che, consunte e squarciate
dai suoi feroci passi, concedono in abissi
uno spaventoso sfogo
LXXI
alla poderosa colonna d’acqua che continua a fluire
e sembra piuttosto la sorgente di un giovane mare,
divelto dal grembo di montagne dalle doglie
di un nuovo mondo, che non soltanto la fonte di fiumi
che scorrono fluenti in numerosi meandri attraverso
la valle! Volgiti indietro! Vedi, dove esso si avanza
simile ad una Eternità, quasi che dovesse spazzar via
tutto ciò che trova sul suo cammino, affascinando
l’occhio col Terrore – impareggiabile cateratta,
LXXII
orribilmente bella! ma sul margine, da una parte
all’altra, sotto lo scintillante mattino, posa un’iride
tra gli infernali gorghi, simile alla Speranza presso
un letto di morte, e, inconsunta nelle sue fisse tinte,
mentre tutto là attorno è dilaniato dalle acque
infuriate, innalza serenamente i suoi fulgidi colori
con tutti i loro raggi intatti, e sembra, tra l’orrore
della scena, l’Amore che sorveglia la Follia
con immutabile aspetto.

di George Gordon Byron

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