CamminiMontagna madre

I Ceri non corrono, Kerres sì

I Ceri non corrono quest’anno. Ma la primavera, sì. Corre lo stesso, sul monte Ingino e sui monti d’Appennino, con i suoi santi, Ubaldo, Giorgio e Antonio, con la sua triade Giove, Marte e Vofione. Con i suoi fiori, con le margherite, le primule, le viole, i papaveri e i maggiociondoli e con la grande dea della fertilità, Cerere, Kerres.  Non la può fermare nessuno, né virus, né decreti.

A Gubbio il 15 maggio è stata una giornata in apparenza triste, senza festa. Così allo stesso modo sono apparsi tristi il maggio di Accettura, quelli di Preci, di Pietramontecorvino, di tutti i monti d’Appennino dove la primavera è attesa e celebrata con un rito, talmente antico da averne dimenticato l’origine, ma non la funzione.

Gubbio, Ikuvium, era una capitale degli Umbri, padri dei popoli italici che fecondarono l’Appennino con il ver sacrum, un rito della primavera, appunto. Gli Umbri dai quali discesero i Sabini (termine affine al sanscrito Sabhâ, l’assemblea dei liberi) , i Safini, i Sanniti e l’intera progenie degli italici.

Gubbio, ogni 15 maggio torna ad essere la capitale dei popoli della primavera d’Appennino. Dovunque Flora fa festa, dovunque si alzano gli alberi di maggio, dovunque si canta e si balla anche in maniera licenziosa per il definitivo avvento della bella stagione, quella che porterà fino alle messi, ai raccolti, ai granai colmi, quella che ha già mostrato la prorompente e misteriosa rinascita della vita dopo la pausa all’apparenza mortale dell’inverno.

È una gioia irrefrenabile, che induce a correre, ad alzare tronchi che sembravano morti e che invece sono simbolo di vita, come le croci, in fondo. Come nel corteo degli alberi di Accettura, come nello sposalizio degli alberi di Preci, come nella processione colorata di Pietramontecorvino, come nella folle corsa di Gubbio, con le sue triadi, le sue circumambulazioni, i silenzi, le esplosioni e le rotture. Tutto sembra recitato nel caos della folla, leggendo sottovoce le misteriose parole incise sulle sette tavole di bronzo custodite nel palazzo dei Consoli, nel più antico testo rituale dell’umanità, di un’Appennino quasi privo di miti, ma madre di riti.

La processione di Pietramontecorvino

I Ceri che non si sono alzati in piazza quest’anno, lo sono comunque nei boschi: sono gli alberi di maggio che da sempre rendono onore a Cerere, alla Primavera. Così gli Appennini verdi e in fiore ci aiutano a essere meno tristi per la sospensione delle loro feste e soprattutto a far sì che la funzione dei loro riti non si estingua mai.

“…circa il nome di cero a Gubbio. Non si tratta certamente di una candela di cera, né ve ne sarebbe motivo. Forse l’etimologia andrebbe ricercata tra le divinità kerrìa degli antichi italici, datrici di grazia, la cui persona collettiva è la romana Ceres, l’indiana Śrī, bellezza, ricchezza, plenitudine”.

Pio Filippani-Ronconi – Oriente Occidente – Assisi 1990

CeresCerere, divinità materna della terra e della fertilità, nume tutelare dei raccolti, ma anche dea della nascita, poiché tutti i fiori, la frutta e gli esseri viventi sono ritenuti suoi doni.
Fertilità e primavera d’Appennino, che corre sui Ceri, ma anche senza di loro.

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