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Italici e appenninici, per un altro 17 marzo

Per provare a capire l’Italia non c’è modo migliore che quello di salire su qualche cima d’Appennino e guardarsi intorno. Magari proprio il 17 marzo, nel giorno che nella liturgia delle ricorrenze nazionali è dedicato a celebrare la proclamazione del Regno d’Italia, avvenuta a Torino per l’appunto il 17 marzo 1861.

Salire su una cima per capire l’Italia e l’unità nazionale può sembrare un vezzo, o una cosa stupida al confronto di tante raffinate analisi storiche, sociali ed economiche. Ma salire su una cima è comunque un gesto tanto inutile quanto essenziale.

Da quassù, innanzitutto, si capisce che se quest’Italia si tiene insieme lo deve soprattutto a una catena, quella degli Appennini, che la sostiene come una spina dorsale da Nord a Sud, o da Sud a Nord. Da qui si capisce pure perché l’Italia, anche se resta insieme, è così diversa, per quanto è lunga e stretta, per quanto è divisa in versanti, in valli bagnate da fiumi che vanno in direzioni opposte, spazzate da venti che cambiano nome a seconda del verso dei loro soffi, ma che sbattono tutti in Appennino e che sono all’origine di talmente tanti prodotti agricoli e naturali differenti e della genesi di così tante specie di animali da Est a Ovest e da Nord a Sud, d’aver fatto diventare questa piccola Italia, campionessa mondiale della biodiversità, forse anche di quella tra umani…

E poi, ecco l’altro miracolo che da quassù si osserva con difficoltà, ma che s’intuisce: noi italiani siamo (eravamo/saremmo potuti essere) gente di montagna in mezzo al mare, sul dorso di questo enorme drago che ogni tanto si agita un bel po’. Ma poi le sirene, quelle delle fabbriche, più delle affascinanti creature marine, ci hanno convinti a scendere a valle, facendoci perdere, almeno in parte, quella che il presidente del Censis Giuseppe De Rita una volta definì “un’anima fatta di sobrietà e sacrificio che ci ha permesso di superare tante crisi”, ovvero l’anima appenninica.

Soldati Sanniti, da una tomba di Nola
Soldati Sanniti, da una tomba di Nola

Bene, allora in questo 17 marzo, invece di continuare a discutere di quella controversa unità che raggiungemmo, o subimmo, dal 1861, dovremmo per una volta andare più a fondo nell’anima dei luoghi e d’Italia, volando più in alto e più indietro nel tempo, ma sempre sopra e intorno a queste cime d’Appennino.

L’identità ha radici contorte, ma se non le si ricerca con caparbietà, con la brama del νόστος, del ritorno di Ulisse, quel fuoco che lo guidava nelle sventure e nelle sfide agli dèi, quando ad ogni costo voleva tornare alla sua Itaca… beh quest’identità rischia di sfuggirci di mano.
Anche perché la nostra Itaca, non è un’isola, ma una penisola di monti naviganti, come meglio non poteva definirli Paolo Rumiz, spartiacque del Mediterraneo e delle civiltà del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest. Ma anche culla di una grande civiltà, appenninica, prima ancora che romana.

E questa riflessione ci indica il punto sul quale dalla cima occorre concentrare l’attenzione: una valle in mezzo alla catena, circondata dalle sue montagne più alte, tra il Gran Sasso e la Maiella.
Qui due millenni fa, che sono molti di più dei 160 circa da quel 17 marzo, successe qualcosa di straordinario. “Giurarono, E fu così che nacque Italia”. Successe a Corfinio, e il patto fu sancito nei pressi del tempio di Ercole Curino che sovrasta la conca peligna dove oggi è Sulmona. I popoli dell’Appennino, guidati dai Sanniti e dai Marsi, per l’ultima volta, decisero di coalizzarsi contro una potenza che ne minacciava libertà e dignità. Per questo scelsero insieme una identità più forte e decisero di chiamarsi Italia col nome per la prima volta scritto a chiare lettere sulle monete, nello scontro finale con Roma, in quella incredibile e incerta guerra d’Appennino che fu la guerra sociale. Lo raccontano in maniera appassionata e appassionante i romanzi storici Figli del Toro e Viteliú di Nicola Mastronardi, giornalista, autore tv, molisano e quindi sannita doc, appassionato cultore della storia antica dell’Appennino, nella quale lo ha sempre accompagnato l’insegnamento del professor Adriano La Regina.

C’è una storia nascosta, narrata in questi romanzi, basata su tante fonti che avevano bisogno di una narrazione, anche epica, e che serve per capire meglio l’Italia, non solo quella appenninica, per “tentare di colmare un incredibile vuoto nella cultura generale italiana”. Il vuoto è la non conoscenza delle origini dell’Italia come nazione, del carattere e della cultura che i popoli italici trasmisero prima a Roma e poi a quell’Italia ancora lontana da venire.

Il debito di Roma verso l’Appennino e l’origine d’Italia in Appennino non sono solo materia da romanzi (che varrebbe la pena leggere, o rileggere proprio in occasione di questo 17 marzo), ma vere e proprie indicazioni stradali, o navali, per ritrovare la via nel nostro νόστος, la voglia di un ritorno a casa, in un Italia che va ben oltre quella del 17 marzo, che ha radici molto più profonde e che ancora nasconde la sua vera identità, insieme alla sua anima tra queste cime. Magari per provare a sentirci un po’ più italici, prima ancora che italiani.

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