Montagna madreMontagna musa

La ballata dei paesi perduti (e ritrovati)

Low lie the fields of Athenry
Where once we watched the small free birds fly
Our love was on the wing
We had dreams and songs to sing
It’s so lonely round the fields of Athenry.


Ci sono due tipi di paesi perduti sulle nostre montagne: quelli che se li sta mangiando il bosco e quelli che se li mangia il turismo. A me stanno più simpatici i primi. Ma sono due facce della stessa medaglia, che non è certo una medaglia al valore.

Intendiamoci: un paese può vivere anche di turismo, ma non può essere solo un paese turistico; peggio ancora un villaggio turistico, o un albergo diffuso. Sennò parliamo d’altro.
Poi ci sono i paesi moribondi. Quelli con pochi servizi e poco o niente lavoro, con una popolazione di sopravvissuti che resistono più per necessità e abitudine che per speranza, senza progetti di futuro. In minoranza ci sono le poche comunità ancora vive e, perfino di meno, quelle che provano a rinascere.

Ma in generale, anche sull’Appennino, sembra di stare tra gli ampi e solitari campi di Athenry. Quelli della ballata irlandese, dove una volta si sognava e si cantava, prima della carestia e prima che gli inglesi mandassero in galera chi, per fame, rubava il granturco.

Qui in Appennino la fame c’è stata, l’emigrazione pure, le rivolte anche, poche e disperate. Ma alla fine i campi si sono svuotati e non c’è più nessuno che canta alla mietitura, o nelle bettole.

No, l’Appennino non canta più.
E nessun gruppo di tifosi, se la sentirebbe d’intonare allo stadio la canzone delle olivare, così, tanto per marcare la propria identità. Come invece fanno i tifosi irlandesi che in ogni stadio, in qualsiasi parte del mondo cantano a squarciagola The Fields of Athenry, per ricordare insieme la carestia e le difficoltà, ma anche la voglia di lottare di un popolo che non ha ancora del tutto smesso di essere popolo.

Le Pasquarelle di Spello

Il popolo d’Appennino invece non c’è più, forse non c’è mai stato, oppure semplicemente non si è mai riconosciuto come tale, perso tra mille identità e campanili, distratto da fame e fatica. Alla fine son corsi tutti giù a valle, quasi rotolati, in cerca di pane e dell’apparente comodità della società senza comunità.

Di quella comunità, di quelle vecchie comunità montane, resta però la memoria, troppo spesso folklorica e inquinata dal ricordo del bel tempo che fu, che tanto bello forse non era proprio.
Tuttavia, avendo voglia di ricostruire da zero, così come fecero i muratori e gli scalpellini che dalle macerie di Roma s’inventarono il Romanico, qualche pietra angolare di quella civiltà rurale dalla quale siamo quasi tutti figli, si potrebbe pure provare a tenere. Per costruire nuovi edifici, certo, belli ed essenziali. Puliti, soprattutto.     

Oggi chi vuol tornare e chi vuol andare a vivere nei paesi vuoti – i pochi, i felici pochi – non assomiglia certo ai cafoni di Fontamara, ostaggi di una secolare ignoranza e sfruttati da padroni parassiti.
Chi torna, chi prova a tornare o a restare è un bravo imprenditore della campagna e della montagna, con un bagaglio di studi e d’entusiasmo che troppo spesso viene frustrato. É uno che ha più paura delle tasse e della burocrazia che dei lupi. Uno che deve sapersela cavare non solo nel confronto con le bizze delle stagioni e del clima, ma soprattutto con gli arzigogoli dei Programmi di Sviluppo Rurale (il PSR…), del Piano Strategico della Pac 2023-2027, della RRN, ovvero della Rete Rurale Nazionale, coi commercialisti e con i tempi delle burocrazie degli uffici comunali e regionali, ben più lunghi di una siccità estiva.
Così, quello che qualunque imprenditore chiede, gli imprenditori della montagna, che spesso sono piccoli e giovani, lo meriterebbero non una, ma due, tre volte: la semplificazione.
Ecco, per la montagna e per farla tornare abitata forse non servono la legge Realacci, o il PNRR Borghi: basterebbe l’applicazione di una speciale normativa semplificata almeno sopra una certa quota, nelle aree interne. Il che consentirebbe di vivere in maniera più serena il lavoro, le famiglie, il proprio tempo e i rapporti con gli altri, senza i quali non si ricostituiscono le comunità e non si torna a cantare.

Ma tutto questo non basta ancora. Ci vogliono idee nuove, ci vuole un nuovo rapporto con le città (ne avevamo parlato anche noi di Appenniniweb), ci vuole una sterzata a livello di educazione e cultura giovanile (e anche di questo avevamo parlato, proponendo un particolare Erasmus montano…).

Infine ci vuole l’ingrediente speciale: l’anima. Quella che solo chi scrive una ballata può percepire e poi evocare, solo un artista, o un poeta, meglio ancora se un poeta e allo stesso tempo un imprenditore e contadino. Per esempio come il molisano Carmine Valentino Mosesso

Ci vuole un paese che entri con clemenza rinnovata nell’archivio delle paure, dei fallimenti, delle politiche guaste e ricominci a seminare sull’unica terra resa fertile dal sangue e dal sudore, la sola terra che non vede crisi e che cresce dentro tutti: il cuore.

E nel cuore c’è il senso del luogo, che vale più del PNRR, perché non è un investimento a debito, perché è gratuito e bisogna solo essere bravi a riconoscerlo. L’Appennino ne è pieno: ne è una miniera. Certo per scavarla ci vuole una narrazione schietta, efficace e potente. Ci vogliono i poeti, prima ancora che le guide turistiche o i programmi televisivi edulcorati, scritti da sceneggiatori di città e  pagati con i fondi europei e regionali. Ci vogliono i poeti che non sono per tutti, direte voi. Eppure in Appennino, anche in quello di prima, i poeti li ascoltavano tutti. E i versi, se sono di cuore e se sono orecchiabili, li imparano tutti a memoria così da farli diventare una ballata popolare, un bel canto d’Appennino, per un nuovo popolo d’Appennino, per i paesi da riprendersi e non il compianto per quelli che sono morti o per i campi solitari e abbandonati come quelli di Athenry.


L’Italia, da qualche decennio, ha dimenticato di essere un Paese di paesi. Ma per fortuna c’è fermento. É cangiata l’aria direbbero gli amici cilentani. C’è aria di storia, adesso, nei paesi. Una pagina bianca dove chi passa scrive una riga con le suole. Dove chi combatte mette un punto ad un altro paragrafo nel capitolo delle mille civiltà dell’Appennino.

Carmine Valentino Mosesso, autore de “La terza geografia”

Altre ballate d’Appennino, da ascoltare…
Il mio Appennino – Giovanni Lindo Ferretti
La notte di San Giovanni – Vinicio Capossela
Nascosti e liberi – Lassociazione
Natale a Pavana – Francesco Guccini
Gli Spaesati – Davide Van de Sfroos

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