Montagna madreMontagna musa

Sulla tomba dei fulmini e sui prodigi del cielo

Un gregge di pecore, né troppo piccolo né troppo grande, pascola sui prati oltre i mille metri in una giornata di fine primavera. Il tempo d’improvviso si guasta. S’alza il vento, nuvole nere e pesanti oscurano il sole. La pastora, perché sì ci sono ancora le pastore/pecorare in Appennino, chiama i cani per radunare il gregge e ricondurlo allo stazzo. Li precede con il bastone-ombrello che l’aiuta a scendere. La sua silhouette si staglia contro il cielo cupo, sul crinale erboso. Ma mentre sta per raggiungere il breve tratturo che conduce alla troscia, si scatena il temporale. Il cielo romba e i fulmini iniziano a cadere, prima distanti, poi sempre più vicini. Infine una saetta colpisce il terreno pochi metri davanti al gregge. La pastora viene scaraventata a terra, il gregge si divide, i cani abbaiano impauriti sotto la pioggia battente. Sembra quasi la scena di una saga nordica trasposta in Appennino.

Passano pochi secondi: la pastora si rialza, si scuote, si mette le mani in testa per assicurarsi di averla ancora sul collo, urla ai cani, fischia fino a farli tornare obbedienti. Ne carezza uno e gli sussurra qualcosa all’orecchio. Il cane corre a recuperare le poche pecore fuggiasche. Il gregge è di nuovo unito, ordinato e – composto – rientra nello stazzo belando.
Le orecchie della pastora ronzano forte, le guance bruciano, ma lei adesso è tranquilla. Ha sperimentato qualcosa che conosce: la potenza della natura. E sa qual è la risposta che deve dare. Non c’è di che disperarsi. Sarebbe inutile. Più tardi verserà un po’ di latte a terra.

Poco più su, oltre lo stazzo, inizia un sentiero che una volta si chiamava la Via del Carro. Conduce alla cima, dove almeno sei o sette secoli prima dell’era volgare le genti della montagna avevano costruito un recinto sacro. Al centro c’era una stipe votiva, riempita per anni e anni con il getto di piccole figure schematiche di bronzo che raffiguravano uomini, donne, animali, a invocare protezione per le persone, per le greggi. Una richiesta rivolta forse al Marte italico, dio agreste e fecondatore, protettore dei confini, dei campi e degli animali addomesticati.

Qui gli archeologi, scavando, hanno trovato una grande saetta di bronzo dorato, seppellita. E qualcuno ha pensato che anche quassù ci fosse una tomba…la tomba di un fulmine.

La saetta in bronzo dorato del tempio di Monte Torre Maggiore (Cesi) – Foto Manu – Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria

Gli antichi abitatori dell’Appennino attribuivano straordinaria importanza ai fulmini, tanto che la loro interpretazione era considerata un’arte sacra, l’arte fulgurale.
Si riteneva che solo nove dèi potessero scagliare i fulmini a terra: Giove, Giunone, Minerva, Vulcano, Marte, Saturno, Summano (che li scagliava solo di notte), Veiove ed Ercole. Ognuno di questi dèi aveva il potere di utilizzare un tipo specifico di fulmine, tranne Giove, che aveva a disposizione ben tre fulmini diversi. Le specie di saette, dunque, in tutto erano undici.

Quando un fulmine cadeva in un luogo particolare, la porzione di terra colpita veniva accuratamente delimitata affinché non potesse essere più calpestata, ma prima si scavava una piccola fossa, dove il fulmine veniva simbolicamente seppellito con i resti degli oggetti colpiti. In epoca storica queste tombe straordinarie venivano contrassegnate da una pietra con la scritta incisa “Fulgur conditum”, o semplicemente con le lettere FCS, Fulgur Conditum Summanium, se si trattava di un fulmine notturno, naturalmente. Il sepolcro recintato prendeva il nome di bidental, perché l’expiatio si completava col sacrificio al dio tonante di una pecora di due anni e due denti, “bidentes”.

Così i luoghi dove cadevano i fulmini erano segnati. E il fulmine era e resta un pericoloso, quanto affascinante ponte tra la terra e il cielo. Un ponte d’energia e di morte, tremendo. Ben diverso dall’arcobaleno che dalla terra parte e alla terra ritorna, con placidità e senza innalzarsi troppo. Chi frequenta le montagne ha un sacro terrore del fulmine, un timor panico. Eppure, se tutto funziona, la forza del carattere degli uomini può non annullarsi nella potenza degli elementi.
Cosa siano davvero i fulmini ce lo può spiegare la scienza, oppure no. Ce lo fa capire in maniera più profonda lo stupore che proviamo di fronte al lampo e l’inquietudine di quando ascoltiamo il boato susseguente o contemporaneo.
Un fulmine, d’altronde, è come un haiku, come l’istantaneo componimento poetico giapponese, la luce squarcia le tenebre e, in un attimo, c’è un bagliore di comprensione.

Ma la Potenza appartiene solo alla natura, al fulmine, al terremoto, al calore del sole, alla profondità dello spazio, al nume. La risposta dell’uomo è nell’ordine, nell’onore, nella dignità e nella bellezza. Il paesaggio invece della selva, venire a patti con la natura, essere parte della natura comprendendola senza però andare oltre. Seppellire il fulmine, cercare un accordo, la pax deorum. Questo, forse, è il nostro posto.

Si diceva prima che una delle funzioni dell’arte fulgurale era quella dell’expiatio, ovvero l’esecuzione delle attività liturgiche necessarie a ristabilire un rapporto pacifico con la divinità saettante. Con gli dèi una volta si poteva parlare, sulle cime d’Appennino, per trattare la pace. La pax deorum non era un abbandonarsi al loro volere, ma non era nemmeno una sfida. Era la consapevolezza del limite, della forza e della Bellezza che ci danno l’opportunità di provare a venire a patti con la Potenza. Possiamo farlo, appunto, attraverso la Bellezza, attraverso il rito, attraverso la percezione di un’armonia, di un ordine, che ci diano speranza, o che almeno non ci inducano alla follia, anche attraverso azioni apparentemente inutili, come quella di versare un po’ di latte alla terra, vicino alla cima di una piccola montagna d’Appennino, dove era sepolto un fulmine e un altro non è riuscito a scomporre l’ordine di un gregge, se non per un attimo. Forse per merito di Marte, o di una grande madre.

…in Spoletino colore aureo globus ignisad terram devolutus, maiorque factus eterra ad orientem ferri visus magnitudine solem obtexit. Nell’area circostante Spoleto un globo incandescente color dell’oro si schiantò sulla terra e, ingigantitosi (per l’impatto), sembrò sollevarsi da terra verso oriente (in una nube) così grande da oscurare il sole ..

Giulio Ossequente, Liber Prodigiorum
Riproduzione di un quadro di Joseph Farquharson


Foto di copertina: Gaspard Dughet, Paesaggio con fulmini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *