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Sintesi d’Appennino, perché Cesi ha vinto la lotteria del PNRR

Pane e prosciutto dall’oste Martino, la bruschetta con l’olio di Paolo, l’uomo che sussurra agli ulivi. Quattro chiacchiere al sole di fronte alla facciata di Sant’Angelo che ripara dalla tramontana, con lo sguardo che vaga tra le foschie dell’ex valle incantata. Le poesie sotto i baffi di Frumenzio e le telefonate di Lucia al signor marchese; gli occhi che ridono sopra la mascherina di Francesco mentre mostra un quadro antico girevole e double-face; Roberto che fa lo speleo e che ha una grotta nella cantina dell’associazione; Mirco che non vede l’ora di tornare a passeggiare per i vicoli del paese pieni di gente come quando c’erano le feste e Lupetto che fa il caffè e vende le sigarette. E poi c’è chi vuol volare e chi vuol tornare, chi studia la storia, chi la disegna e chi immagina il futuro, chi ne ha paura, forse con qualche ragione. Ma i cesani non sono così tanti come le loro speranze e i loro timori. Anzi sono sempre di meno.  

Come faranno adesso che hanno vinto la lotteria? Sì, la lotteria del PNRR, quella del bando borghi, quella del colpo grosso voluto dal ministro Franceschini che tanto ha fatto discutere: 20 milioni per 21 paesi nell’Italia spaesata, che chiamarli borghi già infastidisce un po’ gli abitanti, manco fossero pezzi da museo, o pagine nella guida del Touring.

Cesi è il vincitore per l’Umbria e rappresenta l’Umbria vera, quella della montagna che di paesi in abbandono ne ha anche troppi e tutti interessanti. Eppure è stato scelto Cesi, che pochi conoscono. Ma loro, i cesani, sono fatalisti e poco inclini agli entusiasmi. Anzi, hanno un po’ di sana paura del cambiamento. Dicono, vabbé ma non ce l’aspettavamo mica; il progetto lo ha fatto il Comune, quello della città che sta giù a valle, Terni, che per tanto tempo sembrava averci dimenticato e che per tanti secoli ci ha dato solo rogne. Eppure l’anima del paese sono loro e se il progetto c’è, il merito è dei pochi che sono rimasti; il merito è dei pochi, dei felici pochi che hanno tenuto in vita Cesi. E adesso questi pochi non hanno solo i soldi da spendere o da veder spendere: hanno anche una grande responsabilità, salvare l’anima del paese.

Cesi ha vinto la lotteria perché così era scritto. Scritto nel suo Dna, nella sua storia, nel suo paesaggio, nella sua montagna parlante e sbuffante. Forse la sua candidatura l’hanno raccomandata gli antichi dèi della montagna, oppure i santi delle sue sette chiese. Magari è merito del suo genius loci, che non se ne è volato via, ma è rimasto attaccato alle rocce come le case del paese.

Forse la sua rinascita era già scritta: nelle tavolette in lingua umbra venute fuori dagli scavi, nelle lapidi murate nei conventi, o sulle facciate delle chiese romaniche, nei suoi stili di vita, nelle imprecazioni suggestive dei suoi abitanti, nel suo abbandono e nella sua resistenza (che resilienza è troppo abusato come termine).

Cesi è sintesi d’Appennino, di tutto quel che di grande, di profondamente antico e di straordinariamente moderno puoi aspettarti di trovare ancora nelle aree interne d’Appennino, se hai voglia di sintonizzarti sulle frequenze del suo genio, della sua anima.

Cesi è la Terra dei Padri, come disse, una volta che venne qui, Nicola, sannita e molisano, narratore delle gesta degli antichi italici, pensando ai primi abitatori della montagna che sovrasta il paese, Naharchi, un po’ umbri e un po’ Sabini, comunque popolo-matrice di tutti gli altri popoli italici,  per via delle migrazioni disperate, eroiche e totemiche del ver sacrum, delle primavere in cammino che fecero l’Italia, molto prima di quella che conosciamo.

Cesi è un matrimonio ben riuscito tra paesaggio e urbanistica; Cesi è il paese dei terrazzamenti protostorici, trasformati, ma mai abbandonati nei secoli. Cesi è un paese che si adatta alla montagna, se ne protegge e se ne fa proteggere, se ne nutre e l’abbraccia con le sue mura, le sue torri, il suo castello. Cesi più che paese è paesaggio, è un patto persistente e mai rotto tra la natura e gli uomini che hanno scelto di abitarci.

Cesi è uno scrigno d’arte, perché è una piccola capitale. Era una capitale forse già nella protostoria, o comunque era il luogo, il monte/archetipo, verso il quale guardavano popolazioni lontane, col suo tempio e i suoi fuochi in cima e nella cittadella fortificata di Clusiolum, sullo sperone di roccia con le falesie strapiombanti. Cesi era una capitale del piccolo feudo longobardo delle Terre Arnolfe, col suo statuto, il suo territorio, il suo capitano, il bargello, il carcere, i conventi. I suoi cavalieri nominati con formule ancora ricordate nelle filastrocche dei bambini e le sue donne toste.

Cesi è una montagna parlante, dai 450 metri del paese ai 1100 metri della cima, ha tante storie da raccontare: quelle degli dèi, sicuro, ma anche quelle dei fraticelli e di Francesco che qui, in mezzo alle leccete e sopra antichissime fenditure animate scrisse l’Exhortatio, prequel del Cantico;  quelle delle comunanze, del legnatico, dei carbonai, dei tartufari, dei cacciatori, delle pecore e delle pecorare che ci sono ancora, delle transumanze e dei pascoli che ci sono ancora pure loro, ma troppo cari.

Cesi è una montagna con tanti segreti: grandi madri, regine, regni sotterranei, bocche sbuffanti e grotte fatate, regoli, folletti e mazzamurelli, cavalieri templari, benedettini e francescani, magie e stregonerie, grandi famiglie, i Cesi, che fecero la storia dell’Umbria, dell’Italia e della scienza.

Cesi è una montagna che ha voglia di giocare, se vuoi fare sport, dove puoi salire a piedi, in bici, piano o di corsa, dove puoi scendere volando, o immergendoti nella terra. Ma è anche una montagna con una natura straordinaria e una grande biodiversità, dai tritoni ai lupi, dalle pinete alle faggete, da scoprire con rispetto.

Cesi è stata dimenticata, da quando Terni, dopo averla contesa per secoli a Spoleto (che la include ancora nei confini della sua diocesi), se ne appropriò definitivamente nel 1927 al culmine del suo primo sviluppo industriale: le serviva crescere ancora per essere proclamata provincia e così inglobò Cesi nel suo Comune, ponendo fine alla sua autonomia e dando il via al suo declino.

Ma Cesi ora è un patto nuovo con la città, un’alleanza ancora da scrivere così come dovrebbe succedere in tante altre aree d’Appennino: uno scambio alla pari dove il paese offre bellezza, natura, uno stile di vita in parte dimenticato, una diversa prospettiva nell’affrontare le cose e la città mette una nuova attenzione, la capacità di progettare, di cogliere le opportunità e una grande voglia di evasione…

Cesi sarà un’amante del fine settimana o una moglie fedele?
I paesi non sono fatti per i cittadini, dice Giovanni Lindo Ferretti, vanno bene al massimo per una scappatella. Ma, grazie ai finanziamenti del PNRR ( se e quando arriveranno), Cesi potrebbe avere una dote speciale: nuovi servizi, nuove opportunità e nuove tecnologie per trasferire il posto di lavoro dove ci piace di più. E allora la scappatella potrebbe trasformarsi in un matrimonio e in una nuova residenzialità…  

Cesi è dunque una porta, una porta sulla montagna e sulla natura selvatica, una porta sulla storia, anche quella più remota, una porta su uno stile di vita verso il quale in molti vorremmo dirigerci.

Cesi però oggi è una porta chiusa. Forse possiamo provare a riaprirla. Col permesso dei cesani, che hanno tutte le chiavi. Forse anche con l’aiuto del dio delle porte, Giano che secondo qualcuno era di casa da queste parti. Con i suoi due volti il buon padre Ianus indica il passato e il futuro. Nessuno dei due può vivere senza l’altro.
Il futuro di Cesi dovrà nutrirsi del suo passato…ma anche di bruschetta all’olio, magari con il tartufo. Da condividere con i nuovi cesani e con gli ospiti. Con attenzione e onestà. Speriamo. Le lotterie a questo servono. A sperare.

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