Montagna madre

Santuari, regine e sibille: i segreti di una montagna

La montagna di Cesi, appena sopra Terni, custodisce molti segreti. Alcuni sotto terra, altri alla luce del sole. Di quelli sotterranei continuano ad occuparsi gli speleologi che hanno esplorato le tante cavità carsiche alla ricerca di meraviglie naturali, come la grotta Gis, ma che si sono mossi anche sulle tracce di storie antiche.
Il monte Eolo, in passato definito come la prigione dei venti, (da poco è uscito un interessante volume a cura di Culturesotterranee con questo titolo) soffia aria dalle sue tante bocche e attira l’attenzione di storici e ricercatori più o meno illustri, da Tito Livio che forse lo indica come la montagna sotto la quale si rifugiavano i guerriglieri umbri per attaccare e per sfuggire ai soldati romani, o un tal ingegner Costanzi che nei primi decenni del secolo scorso descriveva un sistema di gallerie tra Cesi e la vetta percorso nientedimeno che dalla regina degli antichi umbri, nel suo regno sotterraneo.

Ma è sulla cima di questo monte, che nei secoli prese anche il nome di Peracle e di Ara Major, oggi Torre Maggiore, che tutto sembra ricongiungersi, i segreti sotterranei e quelli della superficie.

Come ben mostrano le foto del drone di Angelo Papa, sulla vetta, a 1120 metri, sorgeva un santuario che è stato oggetto per più di un ventennio di continue e accurate campagne di scavi da parte della Sovrintendenza. Gli archeologi hanno stabilito che l’insediamento sacro risale a più di 2600 anni fa.

Al centro c’è un piccolo tempio, con cella e pronao: segna il punto dell’insediamento più antico. Davanti si distinguono l’ingresso e il piccolo foro del pozzo, o della cisterna. Tutt’intorno, a raggiera, alcuni ambienti, uno dei quali – il più grande – è la base del secondo tempio costruito dai Romani in epoca successiva. Gli altri ambienti erano, con ogni probabilità, a servizio del santuario, o adibiti al ricovero dei pellegrini che giungevano, presumibilmente stanchi, fin quassù.
L’archeologa Laura Ponzi Bonomi ipotizzò che in alcuni di questi ambienti si producessero e poi venissero posti in vendita i bronzetti votivi, piccole e semplici figurine schematiche di uomini, donne e bestiame acquistate dai pellegrini e offerte alle divinità. Né più e né meno come le bancarelle intorno agli attuali luoghi di culto.
Ma qui, tra cielo e terra, il senso del sacro era esaltato (e lo è ancora) dalla meraviglia del paesaggio. Che colpì le antiche popolazioni naharke, umbro-sabine e non manca di impressionare ancora i pochi visitatori di oggi.
L’area sommitale di Torre Maggiore dai primi anni del nuovo millennio non è più oggetto di scavi, considerata l’ormai cronica carenza di fondi a disposizione delle Sovrintendenze. Tuttavia, nonostante di fatto le indagini archeologiche possano dirsi terminate, il sito non è segnalato né con un’adeguata cartellonistica, né all’interno di stabili itinerari turistici, magari collegati con il parco archeologico di Carsulae, attraverso la spettacolare area di sant’Erasmo, o il convento francescano della Romita.

Così il suo fascino è un premio per pochi e il suo mistero più grande resta da indagare. Quello della grotta sottostante l’area sacra più antica sulla quale sorse il tempio che ad essa era collegato con un foro, una fossa votiva, un mundus, attraverso il quale venivano calate le offerte. Chissà a chi? Gli archeologi non ce lo dicono. Resta dunque ancora lo spazio per la fantasia, per immaginare chi potesse essere il destinatario, o i destinatari, di tante attenzioni da parte dei numerosi pellegrini che all’alba della storia, con lunghi viaggi a piedi salivano fin lassù: le divinità ctonie? Una grande madre come l’umbra Cupra, poi trasformata dai Romani in Giunone? Una Sibilla come la misteriosa abitatrice della grotta sulla cima dei non lontanissimi Monti Azzurri che nelle giornate limpide s’intravedono in lontananza da Torre Maggiore? O magari proprio la regina degli Umbri! Tante domande che valgono almeno una passeggiata, ma soprattutto un po’ più d’attenzione per un’area e una montagna da tutelare e da valorizzare.
15.3.2017 – Gian Luca Diamanti per Il Messaggero

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