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Il senso dei luoghi: la “Rapina” dei Monti Lepini

a cura di Fabrizio ManuguerraLa Filibusta Pontina

L’inverno lepino sembra volgere al termine. L’aria pungente e fresca della valle bassianese sembra quasi essere accogliente mentre la cima più alta dei Monti Lepini, La Semprevisa, si nasconde dietro sbuffi nuvolosi che la circondano.
Le leccete che adornano i fianchi dei monti risaltano con il loro verde intenso i colori della pietraia di media montagna e l’argento dei fusti dei faggi spogli. Qualche cavallo allo stato brado taglia a mezza costa i crinali brulli e in lontananza i camini accesi del borgo di Bassiano sbuffano silenziosi. Il cielo è velato e le cornacchie si esibiscono in voli equilibrati seguiti da soste sui recinti delle varie fattorie sulle strade pedemontane.

Nel cuore dei monti, una volta chiamati Volsci, il tempo sembra essersi arrestato e il pre-appennino laziale sembra vivere un ritmo totalmente scollegato dalla quotidianità; i pastori risalgono con le capre i versanti più “dolci” dei monti e i cani abbaiano al seguito.
Iniziamo anche noi salire fuori sentiero la macchia bassa fatta di rovi, rose canine e letti di torrenti in cui rivoli deboli di acqua scorrono. Incontriamo le sorgenti e le vaschette naturalmente modellate, intorno a noi il silenzio unito a scalpiccìo lontano. Proseguiamo ancora seguendo una flebile traccia calpestata dalle greggi e dai cinghiali, di fronte a noi un carnaio: un cavallo in stato di decomposizione è al centro di un pianoro in quota, un banchetto naturale per lupi, cinghiali e rapaci.
Qualcuno una volta disse che la vita in montagna “disabitua dall’idea di respingere la morte”. In montagna la morte è un fatto naturale che si deve accettare; il make-up dell’esistenza senza la presenza della morte è una favola sfatata.

Proseguiamo costeggiando la lecceta impervia e soprattutto non frequentata, esemplari di quercus ilex secolari ci invitano al silenzio e al rispetto. Ne compare uno col tronco possente che sembra essersi girato tre volte su se stesso. In lontananza rumori fugaci di pietre e di cambi di direzione non programmati; le ghiandaie strillano acute mentre i raggi del sole della tarda mattinata arrivano finalmente a penetrare tra le foglie sempreverdi. L’umidità del bosco ci aiuta ad affrontare l’escursione e, come tutti gli esseri eliofili, ci spingiamo verso il tepore del sole.
Man mano che saliamo ecco che passiamo accanto agli ultimi esemplari giovani molto fitti, fino a raggiungere la radura bassa e le prime roccette fuori dal bosco. I primi raggi del sole ci investono.

Davanti a noi tutta la grazia selvaggia del paesaggio lepino, quindi d’Appennino, si presenta sotto forma di lecci secolari rassomiglianti a “eremiti e combattenti” per chiamarli come scrive Hermann Hesse, solitari, posti sui crinali brulli; le cime sassose e più in fondo la Semprevisa, massima elevazione dei Monti Lepini con i suoi 1536 m.
Il paesaggio suona campanacci e piccoli trotti dei cavalli, qualche parola lontana di un pastore, un richiamo e poi un po’ di vento ad accompagnare la nostra escursione.

Le valli della Rapina

Il nostro amico Luigi, pastore della fattoria Valle Pepe di Bassiano, prima della nostra partenza ci ha aiutato ad individuare i punti noti della nostra escursione “fuori traccia”, uno tra questi il famigerato “Lucino Coccitto” che ora è proprio davanti a noi. Lucino è il nome locale comune per indicare il leccio, Coccitto pare derivare da un tipo abbastanza “cocciuto” di comprendonio e proprio per questa suo difetto ucciso in modo cruento da altri pastori, reo di aver fatto pascolare i suoi cavalli nelle valli della Rapina.

Leggende e racconti che si perdono nel tempo e che arrivano fino ai nostri giorni per donarci un immaginario pastorale dalle tinte dure e difficili. Proprio in quel posto, la famosa Rapina, una dolina carsica caratterizzata da una steppa a media quota, in cui molti decenni prima sorgeva un villaggio comprendente stazzi e capanne di pastori e contadini.
Davanti a noi un muretto a secco ancora in piedi a delimitare l’antico villaggio scomparso, pietre calcaree disposte in cerchio a protezione del villaggio, cavalli liberi all’interno, a pascolare e a gironzolare indisturbati.

Ci sediamo per “fotografare” sulla nostra carta il tragitto per arrivare fino alla famosa Rapina. Ci guardiamo intorno per capire che siamo in un luogo molto particolare: quelli che potrebbero essere dei resti di poco conto, un muretto a secco, piccole tracce di stazzi diruti sono in realtà i simboli resistenti di ciò che è stato per secoli e secoli l’Appennino.

Anche solo una pietra di questo muretto potrebbe rivitalizzare racconti e immagini che si presentano a noi tramite un passato non troppo lontano, quando la vita in montagna si mostrava per quello che era, in tutta la sua profondità e durezza, mai alterata, accettando le condizioni dettate dalla Natura e dalle comunità dei luoghi. Ad oggi, queste poche pietre a delimitare un’area sono per noi veri e propri monumenti portatori di cultura e di esperienza.
La Semprevisa intanto tra i raggi del sole, le nuvole e il vento di febbraio, rimane lì. Sempre in vista.

Per capire meglio il “senso dei luoghi”, Vito Teti scrisse:

[…] Segni, tracce, resti, scarti, frammenti, materiali del passato per il futuro. Bisogna ripartire, allora, dai segni, dalle tracce, dai resti, dagli scarti, dai frammenti cancellati dalla modernità come materiali inutili e simboli muti per cogliere tutte le potenzialità da loro inespresse. Ho attraversato, visitato, studiato, raccontato villaggi, paesi, case, luoghi abbandonati e spopolati…



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