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Se giochi a ruzzolone sei un uomo libero (come un bambino)

Se sta scomparendo lo sta facendo con dignità e senza smettere di divertirsi. E comunque non è detta l’ultima parola, perché le ruzzole ancora rotolano. Veloci e in equilibrio. Il gioco del ruzzolone, in mezzo alla natura e all’Appennino, conserva un sano sapore popolare e racconta una storia millenaria: un gioco semplice ma dai significati complessi, come tutti i giochi popolari e per questo fatalmente (e volutamente) dimenticati. 

Il ruzzolone lo praticavano gli Etruschi e i Romani e poi via, avanti nei secoli, le ruzzole affascinavano ancora le campagne dal Medio Evo fino al Cinquecento e all’Ottocento, su e giù per le polverose strade d’Appennino, con i lanci delle rotonde e resistenti forme di formaggio, poi con quelle di legno. 

Qualcuno arriva a dire che simboleggiano il disco solare nel suo corso annuale. Magari invece era solo il modo più semplice di giocare se facevi il pastore, per misurarsi tra pastori, casari e contadini, per sfogarsi, per dirimere liti e invidie più serie, per scommettere, loro stessi o chi per loro. Come quando ogni proprietario terriero aveva il suo campione e sulla sua vittoria ci puntava forte. Per il resto era festa, urla, sfottò, competizione spontanea, liti e anche botte, se serviva, se la misurazione del lancio non era condivisa…

Il sapore della Maiella è tutto nel nostro cacio pecorino… È il cacio nerastro, rugoso, durissimo: quello che può rotolare su la strada maestra a guisa di ruzzola in gioco. Miro e rimiro. Non mangio più. A dieci anni ero anch’io ruzzolante su la strada di Chieti; e sapevo legarmi al braccio lo spago e avvolgerlo intorno al cacio e prendere la rincorsa per tirare, entrando in furia se la mia gente rideva di me.

Gabriele D’Annunzio

Poi come molte altre cose in Appennino anche il ruzzolone è rotolato giù. Verso i paesi e le città. 

Cosa resta allora? Sono nate le associazioni sportive e le federazioni, non si gioca più per strada, che c’è troppo traffico e asfalto, ma su piste appositamente realizzate, su campi quasi come quelli da golf…con lo schieramento di ambulanze, protezione civile, vigili del fuoco, norme da rispettare codici e codicilli e tanta burocrazia, perfino per giocare.

Ma certo il ruzzolone non è diventato sport d’elite, come il golf o il tennis. È rimasto rustico, come una forma di formaggio e i suoi campionati profumano di vino tirato fuori dalle taniche e di salsicce cotte sulla brace. 

Anche qui è così: qui siamo in mezzo all’Umbria, in mezzo ai Monti Martani, a quasi settecento metri di quota, su un piccolo e verdissimo altopiano nel Comune di Acquasparta, a poche centinaia di metri da un affascinante borgo fantasma, Lo Scoppio. Altre case non ci sono, se non quelle diroccate, che dal campo di ruzzolone peraltro nemmeno si vedono; la strada per arrivare quassù è una sterrata e non c’è acqua corrente. Posto ideale per uno sport/gioco che sta scomparendo, si potrebbe dire.

Il presidente della Figest Umbria Giuseppe Merli

Eppure, in questo posto dimenticato e bellissimo,  sono venuti in più di quattrocento, parecchi dall’Appennino emiliano, ma anche dalle Marche, dall’Abruzzo e da tutte le parti dell’Umbria. 

Qui ad Acquasparta, per merito dell’Asd Ruzzolone San Gemini-Acquasparta-Montecastrilli che gestisce con grande cura l’impianto, ci sono i campionati nazionali di ruzzolone, che è solo una delle specialità della Federazione Italiana Sport e Giochi Popolari. Le altre sono il lancio del formaggio, il tiro alla fune, la ruzzola, che è una variante del ruzzolone, ma anche la morra, la lippa, il fiolet e così via, in una sequenza che se non sei quantomeno un boomer non puoi proprio capire e decifrare…ma che se lo sei, se hai più di cinquant’anni, un po’ ti commuove pure, perché ti ricorda tutti i tuoi giochi da ragazzino d’Appennino.

Qual è allora  la differenza tra un gioco e uno sport? Forse la risposta è che i giochi esistevano, specie qui in Appennino, prima che il mondo latino incontrasse quello anglosassone, con il suo fair play e le sue regole; ma è una risposta parziale e probabilmente inutile.

Il ruzzolone, che poi si declina oltre che nella ruzzola anche nel rulletto, è un gioco popolare di strada. Ragion per cui non è roba da sportmen; ragion per cui se il lancio non prende la direzione giusta ci può scappare qualche sacramento. E qui se ne sentono anche con l’accento di Guccini o di Valentino Rossi.

“Le cose non vanno benissimo – ti dice un po’ sconfortato il presidente della Figest Umbria Giuseppe Merli – perché di ragazzi e di ragazze se ne vedono pochi e anche tra i nostri vecchietti, dopo il Covid parecchi non si sono ripresentati”.

Epperò la Figest va nelle scuole, insegna ai ragazzini a tirare, che non è solo una questione di postura e tecnica di lancio. Ci vorrebbe un po’ più d’attenzione all’identità e ai significati che trasmettono questi giochi.

Bisognerebbe cercare di capire perché, nonostante tutto, tanti adulti, molti anziani, qualche giovane sono ancora qui, sobbarcandosi viaggi e costi. Se lo chiedi al campo di Acquasparta, ti rispondono intorno a un tavolo alzando un bicchiere di plastica col vino: “Per questo!”.

E non è affatto una risposta sciocca. Tirare ancora la ruzzola sui monti, in salita e in discesa, non si fa certo per soldi o per potere; magari lo si fa proprio per stare insieme, per giocare come quando si era bambini, per dare una piccola sterzata alle proprie vite che rotolano via, proprio come alle ruzzole che bisogna mandare più lontano possibile evitando gli ostacoli che sono tanti e senza raddrizzare le curve.
Oppure, possiamo provare a lasciare l’ultima parola allo storico Johan Huizinga, che scrisse “Homo ludens”, quindi a uno che di giochi se ne intendeva:

La caratteristica più significativa del gioco è di essere un atto libero, almeno per l’uomo adulto.  Inoltre il gioco si differenzia dalla vita normale, come lo scherzo dalla cosa seria, anche se a volte esso viene preso molto sul serio

J. Huizinga

Huizinga dunque lo conferma: si gioca a ruzzola, o a bocce, o al tiro della fune, o a lippa, non certo per diventare famosi o ricchi, come nel calcio o in tanti altri sport, ma per tornare ad essere liberi, come lo si era da bambini, con una differenza: un bicchiere di vino in mano e le strade d’Appennino negli occhi da misurare un lancio dopo l’altro e tra uno scherzo e l’altro. Perché in fondo, come diceva il Marchese del Grillo: “Per scherzare (e per giocare) bisogna essere seri”, anche con una ruzzola in mano.

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