Montagna madre

Il maggio magico e sacro nella notte dell’Ascensione

Immaginate gusci di lumaca riempiti d’olio e accesi come lumini alle finestre e sulle strade, grandi falò che ardono nelle piazze, nei campi, sulle cime; piccoli altari domestici ornati di rose e papaveri; erbe lasciate a bagno a la serena, alla rugiada della notte. E poi formaggi freschi, giuncate, ricottine rese straordinarie dal latte prodotto in una notte speciale… è la notte dell’Ascensione sacra e magica allo stesso tempo.

Quante sono le notti magiche che accompagnano il ciclo dell’anno in Appennino?
Erano tante nella civiltà agricola e pastorale; sono tantissime nel mondo della tradizione, ovunque. Sono pochissime ormai nel mondo digitale, dove ad accendersi sono solo le diafane luci degli schermi.
Una delle notti del fuoco, della speranza, delle comunità, della festa, nei paesi di montagna, nelle campagne e perfino in qualche città, fino a pochi decenni fa era proprio quella dell’Ascensione, a ricordare, nella tradizione cristiana, l’ascesa al cielo di Gesù, quaranta giorni dopo la Pasqua e la Resurrezione.

Ma i fuochi erano accesi da tempi immemori nelle notti di maggio. Che sempre sono state notti magiche di miracoli naturali e spirituali. Notti di meraviglie, di dèmoni da scacciare, di presagi da accogliere, di auguri e benedizioni per il raccolto, per la natura risvegliata, per la primavera dirompente.

Il fuoco, simbolo di congiunzione con il cielo; il fuoco, segnale che si può vedere da lontano, dall’alto e dal basso. Il fuoco, centro della famiglia e di ogni comunità, era il protagonista di questa notte, molto ben descritta, come al solito, da Mario Polia, in “I Giorni del Sacro – Ritualità ancestrale nella Valnerina ternana”.

Parlando con gli anziani tornano così a rivivere le storie sulla raccolta delle lumache a Ferentillo, a Macenano, a Montefranco, a Collestatte, a Scheggino, da trasformare, una volta svuotate, in minuscoli contenitori per l’olio risparmiato con parsimonia per la notte della vigilia dell’Ascensione. Lumache luminose, da accendere sui davanzali, con i gusci tenuti fermi con i mucchietti di cenere del camino, per fare a gara a chi aveva la finestra più illuminata, a salutare Gesucristo che sale in cielo e che “da lassù vede tutte le luci della valle e le benedice”.

Fuochi minuscoli e familiari, fuochi grandissimi e comunitari: per l’Ascensione si ripeteva quasi lo stesso rito a distanza di cinque mesi, come per la festa della Venuta che si celebra all’inizio di dicembre, quando i fuochi, i faòni (che tanto ricordano i Fauni…) servono per salutare gli angeli che trasportano la casa di Maria a Loreto. Anche nella notte dell’Ascensione i fuochi devono essere alti e visibili dal cielo. Per questo in ogni paese si faceva a gara a raccogliere più fascine e poi a incendiarle con i rami di ginestra: in Valnerina, ma anche sui Martani, a Scoppio, oggi borgo fantasma, a Stroncone dove “la luce della moltitudine di fuochi che illuminava le campagne fugava le ombre della notte e della mente di chi dalla terra e dalla benevolenza divina ricavava di che vivere”.
Una tradizione, quella dei focaracci, che arrivava anche nelle città, a Terni dove ancora negli anni Ottanta del secolo scorso resisteva nei quartieri, perfino in prossimità del centro, fino ad essere spenta dalla burocrazia di qualche miope ordinanza.

Sempre a Terni, nella valle del Nera, Mario Polia ricorda, con i versi in vernacolo di Furio Miselli, l’allestimento degli altarini di fiori per l’Ascensione, illuminati dalle candele: “…l’ardalinu de rose e papammiri ‘nfiorato appena aggià tuttu appicciato”.

La mattina dell’Ascensione i bambini trovavano sotto gli altarini piccoli regali, ma la notte gli adolescenti e gli adulti si sfidavano a saltare sul fuoco e sulle braci dei focaracci. Perché? Per dimostrare di essere coraggiosi? Di essere più bravi degli altri? Certo, ma pure per celebrare un rito che si perde nella memoria collettiva e nella notte dei tempi…

Alma Pales, faveas pastoria sacra canenti,
prosequor officio si tua festa meo…
certe ego transilui positas ter in ordine flammmas

Alma Pale, sii propizia a chi celebra i sacri riti pastorali
se con assidua devozione onora le tue feste
certo anch’io ho saltato le fiamme disposte in triplice fila

Ovidio

Allo stesso modo si perde nei meandri della memoria collettiva la credenza nella sacralità degli influssi positivi di questa notte di primavera, nella quale il cielo e la terra sembrano più vicini. Tutto ciò che si lascia alla rugiada nella notte dell’Ascensione diventa santo, sacro e curativo: i mazzetti di fiori immersi nelle bacinelle e perfino il latte delle vacche e delle pecore. Così il formaggio fresco prodotto la mattina dell’Ascensione è un formaggio sacro e benedetto.

Tanto importante era questa festa che perfino gli agricoltori, la sera prima, avevano il potere di benedire i propri campi, con le urla. A squarciagola strillavano: “O Compà che è domani?” e dal campo accanto gli doveva rispondere il vicino: “L’Ascensione, ‘na spiga per cantone”, ad invocare un buon raccolto con le spighe di grano cariche di chicchi.

Così la notte dell’Ascensione in tutto l’Appennino era una notte luminosa e traboccante di vita e vitalità. Molto più di questo schermo dietro al quale ci continuiamo a nascondere…

Un pensiero su “Il maggio magico e sacro nella notte dell’Ascensione

  • Manfredo Morelli

    Complimenti, gran bell’articolo

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