Montagna madre

Quando i pastori erano marinai e portavano il mare in montagna…


“Vuuu vuuuuu”, senti…senti dice il pastore. Che prova a fare il verso del mare, come a Mallefougasse, tra i capi di bestie narrati da Jean Giono, nell’Alta Provenza, al grande raduno dei pastori (1).
Sentire il mare dalla montagna, già…
Ma qui siamo in Umbria, la regione senza mare, sui Martani, piccoli monti-appendice d’Appennino, dove di pastori ne sono rimasti pochi e le onde del Tirreno sono lontane, lontane…oppure no…

“Io conosco almeno due pastori che hanno sentito il mare da queste montagne?”.
Corrado ammicca, ma non è facile credergli.
“Andiamo a trovarne uno? È vicino. E poi fa il formaggio buono…”.

Andiamo. Le strade sono piene di pozzanghere e di fango per le piogge copiose di maggio. Ma è tutto talmente verde da inghiottire anche il grigio del cielo.

Arriviamo sul colle di fronte a San Gemini. Dietro ci sono i boschi dei Martani, davanti il paese, in mezzo il viadotto della E45. Di fronte alla casa ecco l’aia, un bel pozzo, una strada d’ingresso bordata da ciliegi, un piccolo vigneto con una pianta di rose a sorvegliare ogni filare. E Leonardo, con l’immancabile cappellino con la visiera di plastica, che ha appena finito le faccende pomeridiane.
“Troppa acqua nel mese sbagliato”, sentenzia. E si può permettere di farlo visto che fa il contadino e l’allevatore di pecore da quando era ragazzo e adesso ha più di 70 anni. Però le rose, anche se bagnate, sono fiorite e bellissime.
“Ma tu lo sai a che servono le rose”, chiede Leonardo, dopo le presentazioni, mentre si accorge che stiamo guardando il vigneto. “Non lo so, ma le ho viste nei vigneti in Toscana e poi anche a Montefalco: sono proprio belle a maggio!” .

Lui che l’ignoranza dei cittadini la conosce e la prevede, soppesa, sorride e poi replica a botta sicura. “No, le rose sono le sentinelle delle viti: siccome sono piante delicate, se arriva qualche malattia se la prendono prima le rose e ci avvisano che bisogna difendere il vigneto”.
Così anche stavolta chi vive della campagna c’insegna che in natura non esiste bellezza inutile, neppure nelle rose di maggio.

Dopo questa piccola lezione, Leonardo c’introduce nel suo mondo. Vediamo la stalla delle vacche, ormai trasformata in una bella taverna, vediamo il laboratorio insieme a Franca, la moglie . Ci sono, ben allineate, le forme di primo sale, fatte col latte delle pecore e con una sapienza d’artigiani caciari che si tramanda da generazioni. Vediamo le pecore, le vecchie foto dei pranzi della trebbiatura, dei trattori, di bambini e anziani nei campi. Assaggiamo il formaggio che profuma e ha il sapore delle erbe dei pascoli.

Ma alla fine, la domanda fatidica sembra che nessuno abbia il coraggio di tirarla fuori. Per fortuna ci pensa Corrado.
“Ma è vero che da qui, dai Martani, quando stavi con le pecore sentivi il mare?”.
È una domanda semplice, fatta col sorriso, ma è pure la chiave di una porta che si apre su un mondo sparito.

C’è stata un’Italia solcata da pecore e pastori, in un lungo serpente di greggi che univa l’Appennino al mare. Per millenni sempre uguale. Con le greggi che si muovevano come grandi navi dalle vele bianche come la lana e con i pastori che le governavano, insieme ai loro cani, come marinai, navigando tra i monti e le pianure, tra l’Appennino e il mare.

TDi CamDib – Opera propria, CC BY-SA 4.0

“Certo che si sente il mare! Quando c’è burrasca se sente la marina, se sente che smarina!”.
Ma da qui? Come è possibile?
“Sì sì, se sente!”, conferma la moglie di Leonardo. “Quando è cattivo tempo si sente il mare. E allora se dice: lo senti l’ombrone?”.
L’ombrone? Ma non sarà il fiume? Quello che sta in Maremma…l’Ombrone…
“Boh! Non lo so. S’è sempre detto così!”

Qui, in Umbria, non c’erano le grandi transumanze che muovevano milioni di capi come sul Regio tratturo dall’Abruzzo, per il Molise fino in Puglia, sul Tavoliere. C’erano però la monticazione e la smonticazione: dalla Valnerina, dai Sibillini, a settembre, il 29, per San Michele, le greggi si muovevano come i fiumi per scendere a valle, per svernare in pianura, cercando un clima migliore. Così i pecorari, i vergari, i pastori, inquadrati in un’organizzazione che durava dall’alba dei tempi, ogni anno erano impegnati in due lunghi viaggi, complicati, pericolosi che li portavano verso l’agro romano e verso la Maremma. Andata e ritorno. In mezzo c’erano i mesi da trascorrere nelle capanne allestite e ripulite periodicamente nelle pianure che i grandi latifondisti preferivano affittare ai pecorari piuttosto che far coltivare.
Si racconta che appena arrivati con le greggi, dopo aver contato le pecore rimaste, visto che durante il viaggio i furti e le perdite di capi erano abbondanti, i vergari facessero entrare i muli nelle capanne abbandonate l’anno precedente. Così le bestie attiravano zecche e pulci, poi uscivano e si rotolavano sul terreno, ma intanto avevano disinfestato i nuovi alloggi dei pastori. (2)
Non era una vita facile quella delle transumanze, magari però era una vita libera, o almeno più libera di quella di chi rimaneva a sudare nei campi. Si andava, si viaggiava, s’incontravano paesi, persone, donne, imbroglioni, ladri. E alla fine si vedeva anche il mare e si sentivano il suo rumore e i suoi odori, mescolati a quelli delle pecore.
A primavera, nella tarda primavera, spesso per l’altro San Michele, quello dell’8 maggio, le greggi ripartivano per la montagna; pastori e vergari tornavano ai loro paesi, alle loro case e alle loro famiglie. Proprio come i marinai.

“Insomma questo amore dei pastori per l’acqua e per il mare questa ossessione che lassù in mezzo alle terre alte li fa parlare di piloti, di barre, di vele, di onde, di sabbia, di schiuma, d’involo, di nuoto, di abissi e fondali; questa bella amicizia è tracciata a fondo nella loro carne perché il mestiere del capo di bestie è qualcosa come l’acqua che scorre tra le dita e non si può afferrare, perché quell’odore di untume e di lana, quell’odore di uomo cotto nel suo stesso sudore, quell’odore di montone e di capro, quell’odore di latte e di pecore pregne, quell’odore di agnelli che nascono avvolti nel loro muco, quell’odore di bestie morte, quell’odore di greggi e d’alpeggio è la vita, come il salmastro degli oceani”.

Jean Giono – Il Serpente di stelle

Si sentirà davvero il mare dai Martani come raccontano Leonardo e Laura?
Oppure è solo la memoria delle transumanze in Maremma, verso l’Ombrone, dalla Valnerina, da Spoleto, da Crocemarroggia, dalla via delle Pecore, per Santa Maria in Pantano a Massa, o per Macerino, Portaria e poi per Carsulae e la vecchia Flaminia, fino ad arrivare sulle rive del Tirreno e tornare indietro riportando con sé la fatica di quei mesi passati lontano da casa, ma anche il rumore del mare e il suo odore?

Ce lo chiediamo con Corrado mentre torniamo verso Cesi con le nostre forme di pecorino nelle buste.
Ma i genitori e i nonni di Leonardo e Franca saranno andati anche loro in Maremma?
“Non lo so”, dice Corrado. “Ma so, attraverso i racconti di mia nonna, che suo padre pastore, il mio bisnonno, andava a fare la transumanza in Maremma. Fino a quando…non è tornato più”. E allora pensi che il rumore del mare che si sente da qui, forse, è quello di tanti ricordi che ancora, per fortuna, continuano a fare su e giù: dal mare alla montagna, dalla Maremma ai Martani. Proprio come le navi, o le greggi.



Note:
1) Il serpente di stelle, Jean Giono – Guanda 2002
2) La transumanza – Transumanza e allevamento stanziale nell’Umbria sud-orientale, Egildo Spada, Quaderni del Cedrav – 2002

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