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Non avete ancora conquistato l’Appennino (Sulla pienezza del margine)

I margini possono stare agli estremi, oppure al centro. Il margine nel mondo attuale – globale e senza centro – non ha dunque luogo preciso. Per questo essere marginali, può voler dire, semplicemente, non essere omologati.

L’Appennino, spina dorsale del nostro Paese, con i suoi borghi spopolati, le sue terre alte, non più luoghi di lavoro e di abitazione, di vita e di comunità, ma ridotti a meta di escursioni e di turismo voyeuristico, l’Appennino amante del fine settimana, l’Appennino delle case sbarrate e crepate, l’Appennino esodato, l’Appennino scosso dell’abbandono, dell’orrore e del sublime, gode oggi di una marginalità che nel lungo periodo può rivelarsi addirittura fruttuosa.

Piace immaginarlo come una grande lavagna, tutta da scrivere e da riempire con i gessetti colorati. Piace vederlo come una terra dimenticata in quanto non redditizia e per questo non ancora del tutto conquistata dal modo di vivere, dalla way of life, di una modernità che – come tale – è comunque destinata a passare. Che per certi versi è già passata.

Il capitale naturale e il capitalismo finanziario non si sono mai affrontati direttamente. In realtà si affrontano ogni giorno e, nei tempi lunghi della storia, è il primo ad avere il miglior pronostico di successo.
Perché poi far fruttare il capitale naturale non è azione che riguardi solo l’economia.

Tornare a una vita moderata, a un patto con la natura, a un sistema di comunità, non è tanto decrescita economica, quanto un passo avanti nella crescita dell’essere, verso la pienezza e la consapevolezza. È anche – forse – l’avanguardia di un nuovo modo – necessario – di immaginare la convivenza sociale.  Di certo – direte – non quello risolutivo nell’immediato, considerando il numero complessivo degli abitanti del pianeta e la complessità alimentata dalla globalizzazione.

Ma le megalopoli sono l’unica soluzione? Le reti non potrebbero essere utilizzate per decentrare gran parte dei servizi? Per risparpagliare le popolazioni tenendole sottilmente unite? Per muoversi verso più umani stati di comunità, come quelli che immaginava nelle sue pratiche visioni Adriano Olivetti?

E l’Appennino dunque? Il paesaggio nel quale erano più o meno consapevolmente immersi i nostri nonni, nelle campagne e sulle montagne d’Appennino portava a una comunione d’utilità, di necessità e di destino con la natura, il sacro e l’inconscio.

Si avverte ora – nei singulti della modernità – una nuova e inevitabile irruzione del sacro o almeno del senso panico, della consapevolezza della presenza dell’uomo nella natura.

La ripresa del viaggio umano nell’inconscio con nuovi strumenti, con nuovo animo moderno, può avvenire più facilmente nei luoghi naturali, come le nostre montagne marginali. Non più come destino, né come necessità, ma come scelta.

Diceva Pasolini “E disegna l’Appennino nel cielo l’ombra /di una esistenza più antica”. Che, invece, in quanto antica, paradossalmente, dovrebbe dirsi perenne e quindi più moderna della modernità.

Aggiunge in prosa un altro grande poeta, Andrea Zanzotto: “Qualunque tentativo umano di cogliere sia pure per un attimo, il rapporto con una verità potenzialmente globale in cui origine della natura e origine dell’io s’incontrino sottintende una visione che è il paesaggio mediato”.

Per questo sentiamo il bisogno delle notti buie per guardarci dentro, e delle albe cristalline per guardare fuori.

Nei monti, nei boschi, nelle forre e nei valichi, nei mille paesi e nei borghi dell’Appennino, il margine può diventare centro, il margine può riempirsi di valore, essere il luogo dove far nascere e crescere una nuova coscienza, una nuova cultura.

Restare è un’arte, un’invenzione; un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempo, una riconsiderazione dei ritmi e delle stagioni della vita.“, scrive l’antropologo Vito Teti.

Restare è aprirsi, tornare è viaggiare oltre lo spazio, scegliere L’Appennino è costruire un altro futuro e riabitare l’anima propria e dei luoghi. È riallacciare i nodi della comunità uscendo dalla società, nella pienezza del margine.

 

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