La lingua degli uccelli e il silenzio delle cime
La cima non è la meta. La meta è lo stupore. E con esso lo svelamento dell’orizzonte totale. Ma il cielo è troppo grande e va tagliato come un velo per riconoscerne i segreti, senza correre il rischio d’impazzire. Questa è una pratica nella quale, in Appennino, eccellevano gli antichi aùguri dei Padri umbri. Una pratica tramandata nei secoli, grazie al genio di questi luoghi potenti.
Gli aùguri, sacerdoti, pontefici, celebranti, che erano capaci di aumentare, di accrescere il senso del sacro, che con i loro bastoni, in piedi sulle rocce delle cime appenniniche, delimitavano il cielo.
Il taglio disegnato idealmente nel cielo con gesti calmi, il temnos (Τῆμνος) formava lo spazio augurale, il tempio celeste.
Tempio, temnos, tempus: c’è una radice comune in queste parole, perché anche il tempo è un taglio, una cesura.
Nel cielo sacro degli antichi umbri, sopra le montagne, gli uccelli, nella varietà delle specie, erano i messaggeri del divino; l’interpretazione del loro volo, la traiettoria d’ingresso nello spazio sacro, da destra o da sinistra, rendeva accessibile il linguaggio divino, ne era interprete.
Questi miracoli accadevano sulle cime, sul monte Ingino, sul Solenne, sul Catria, sul Torre Maggiore, l’Ara Major, sul Subasio, sulla Verna….
Sul Subasio…
“Io credo, carissimi fratelli, che al Nostro Signore Gesù Cristo piace che noi abitiamo in questo monte solitario, se tanta allegria manifestano le nostre sorelle e i nostri fratelli uccelli”.
Sulla Verna…
“…per tutto il tempo di quella Quaresima, ricevette una visita dal cielo: un falcone che nidificava nei pressi della sua cella, ogni notte, poco prima del Mattutino, gli si avvicinava e col suo canto e col suo dibattersi lo destava, e non si allontanava fino a che Francesco non iniziava la preghiera del mattino”.
Sulle orme degli antichi Padri anche Francesco d’Assisi parlava agli uccelli e ne intendeva il linguaggio.
A volte lo faceva in pianura, nella Valle Umbra…
“Andando il beato Francesco verso Bevagna, predicò a molti uccelli; e quelli esultanti stendevano i colli, protendevano le ali, aprivano i becchi, gli toccavano la tunica; e tutto ciò vedevano i compagni in attesa di lui sulla via.”
Altre volte saliva in cerca di orizzonti sugli stessi sentieri e sulle stesse pietre dei Padri, levando le braccia al cielo.
Chi può dire perché? Il segreto della lingua degli uccelli non è semplice da scoprire, forse lo si può fare solo con l’ignoranza del cuore puro, quello del fanciullo, guardando l’orizzonte totale con stupore.
“I disparati volti degli uccelli del mondo non sono che ombre del bel Simurgh”, si legge nel libro dedicato alla lingua degli uccelli di Farid ad-din Attar, un classico della tradizione Sufi.
Ma l’upupa, il picchio verde, la cornacchia osservati con devozione dagli auguri umbri, fratello sole, sorella luna e le stelle di Francesco, restano solo l’ombra della luce. Sono solo un desiderio di andare alla fonte di fronte alla quale non ci sono parole, ma occorre restare in silenzio, come indicano le Tavole di Gubbio, come suggerisce il dialogo nella lingua degli uccelli, come impone la sosta sulla cima.
“Il cammino deve ascendere per farsi non solo curvo, ma anche circolare e assoluto. Come un quadrato che, ruotando, si fa cerchio in modo da ordinare, lungo la circonferenza, sia lo spazio che è intorno, sia la sintesi e il sodalizio di ciò che è dentro e in alto. Per culminare in vetta come su di un cono, il quale sembra mostrare, al Fanciullo stupito, l’ordine del cosmo. Un asse, con una mirabile spirale attorno, che in verticale realizza l’armonia di cielo e terra, quasi fosse un arcaico pileo posto sull’universo e curvato all’interno”. (Il ritorno oltre il tramonto – L’arco e la corte – Il solitario)