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La donna che fissava le capre (facciute) e salvava l’Appennino

Ci sono capre facciute e pecore sopravvissane. C’è il maialino cintato e c’è pure il lupo, per non parlare di mele e pere talmente antiche da avere nomi che sembrano usciti da un manuale di magia. Tornano pian piano sulle montagne d’Italia, sull’Appennino centrale, le specie che sono nate qui, piante e soprattutto animali: ne manca forse solo una di specie, quella dell’uomo e della donna appenninici. Gli umani fanno più fatica, ma certo il loro ritorno sì che completerebbe la battaglia in difesa della biodiversità…
D’altronde, se in Appennino non tornano gli animali a quattro zampe, non potranno tornare neanche quelli a due zampe. Lo dice, anzi lo ripete in maniera quasi assiomatica Luciano Giacchè,  alla fiera di San Felice di Monteleone di Spoleto in una calda giornata di mezza estate. Giacchè di queste cose se ne è occupato per una vita, da antropologo e direttore del Cedrav, il Centro per la documentazione e la ricerca antropologica in Valnerina e nella dorsale appenninica Umbra.
Qui a Monteleone, in una fiera d’altri tempi ben reinterpretata nella modernità, di animali a quattro e a due zampe ce ne sono molti: i loro sentieri, com’era una volta, s’incrociano sull’altopiano appenninico, in questo borgo-castello tra Cascia e Leonessa, sull’antico confine tra Stato della Chiesa e Regno di Napoli, arricchito, o sopravvissuto, nei secoli con il carbone e le miniere di ferro, ma soprattutto con le pecore e i commerci della pastorizia.
D’altra parte cos’è l’Appennino senza la pastorizia e senza l’allevamento? Uno spazio vuoto, un territorio marginale?
“A Castelluccio negli anni Cinquanta del secolo scorso c’erano quarantamila pecore, oggi – dice Giacchè – ce ne sono poco più di cinquecento”.
Se le pecore e gli animali d’allevamento non ci sono più, non è chiaramente solo un problema di terremoti. L’economia è cambiata, l’allevamento si fa a valle, nei luoghi della quantità, nelle stalle dove non ci sono animali, ma macchine da carne e da latte, alimentate artificialmente, quando invece la vacca o la pecora al pascolo scelgono cosa mangiare e cosa non mangiare, con risultati evidenti nella qualità e nei sapori del latte che producono.
Per di più le macchine da latte e da carne ora non reggono più la concorrenza quantitativa della globalizzazione; intanto però hanno rischiato di distruggere non solo i sapori, ma un altro elemento che caratterizzava l’Appennino: la biodiversità, la varietà di specie animali che metteva al sicuro questi territori da periodi di magra, di carestia e consentiva di avere sempre più soluzioni, più strade davanti, come insegna la natura…
Contro questo progetto, o questo sistema folle, belano forte le pecore dell’altipiano sopra Visso, le sopravvissane, che grazie ad antichi incroci hanno la lana simile alla merinos (che per un periodo non si poteva più usare perché fuori mercato e addirittura si doveva pagare per smaltirla come rifiuto speciale) e soprattutto scornano le capre facciute della Valnerina che qui sono nate come specie e che qui hanno rischiato di estinguersi, se non che…
Se non che… ci sono stati tecnici attenti e capaci di iniziare a mettere a frutto le possibilità del Piano di Sviluppo Rurale, c’è stato un intervento della Regione Umbria e del Parco Tecnologico e Agroalimentare.
Ci sono stati soprattutto pastori che ci hanno creduto. E pastore…
Il pastore di Rescia, la famiglia Reali, moglie, marito e tre giovani figlie che secondo i canoni attuali del mainstream non sarebbero dovute restare lì a governare quasi mille pecore e qualche decina di capre facciute, le “mascherine”, salvandole amorevolmente dall’estinzione e tornando a produrre un ottimo caprino.
Già la capra! Per secoli si è discusso se fosse più o meno nociva alle campagne e ai boschi. Però la risposta è semplice: dipende dal capraio.

E anzi se ben governate le capre sono funzionali ai boschi. Ma per allevarle e governarle ci vuol fatica, e amore. Come quello delle tre sorelle e della loro famiglia. Ci vuole cultura e intelligenza e capacità commerciale. Infine bisogna anche intendersi un po’ di social per fare marketing come si deve. Ecco allora come rinascono i nuovi uomini e le donne appenninici, insieme alla capra facciuta. E francamente non si capisce chi aiuti davvero l’altro ad evitare l’estinzione della rispettiva specie.

Resta la burocrazia che ostacola la semplicità naturale; restano per fortuna, la magia e il mito, come quello di Amaltea la capra che allattò Zeus infante in una grotta sul monte Ida nell’isola di Creta. O come quello delle fate dei Sibillini, ragazze bellissime ma con le zampe caprine. Anche le pastore di Rescia sono molto belle: la loro magia però l’hanno fatta senza trasformarsi in capre, ma contribuendo a mettere in salvo un modo di vivere appenninico, un esempio di stile di vita diverso, di biodiversità umana.

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