Chiamami aquila
L’occhio dell’aquila è tra i più potenti di tutto il regno animale. La sua vista è dalle quattro alle otto volte superiore alla nostra. Così l’aquila vola molto in alto e ha una visione del territorio completa e puntuale. Succede anche in Appennino, dove volano le aquile reali.
Ma ne sono rimaste davvero poche, solo una cinquantina di coppie in tutta la catena montuosa. Per questo l’aquila reale in teoria dovrebbe essere difficile da incontrare, molto più del lupo o dell’orso. Ma non è così, perché quando è in volo si mette in mostra contro il cielo azzurro e non si nasconde di certo.
“Avvistare un’aquila in montagna è un po’ come incontrare una divinità”, dice Riccardo Mattea, zoologo, guida ambientale e escursionistica in Appennino.
Ne parlavamo pochi giorni fa, di come sia maestoso il suo volo, di come sia bello e allo stesso tempo inquietante.
Forse proprio per questo ho deciso di salire sul Coscerno, una montagna di circa 1700 metri nella media Valnerina. Sulle sue pareti rocciose nidifica una coppia di aquile reali, ma in tante passeggiate mai mi era capitato di vederle. E invece stavolta, proprio sopra la Forca della Spina, a metà della salita, all’improvviso ecco un’ombra veloce, colta con la coda dell’occhio.
Contro il cielo azzurro di questo fine gennaio ben poco nevoso c’è l’aquila che ci gira sopra la testa, neanche molto in quota. Ci vede, forse valuta che non siamo né prede, né cacciatori. Così ci omaggia di un’ascesa velocissima e di una serie di virate con lo sfondo magico dei Sibillini innevati e poi del Corno Grande del Gran Sasso che si staglia oltre i profili dei monti in primo piano.
Lui, perché di sicuro è il maschio della coppia, continua a volteggiare e sotto le ali sembra avere delle macchie bianche: è un esemplare giovane, ma con gli anni anche la sua testa diventerà più bianca e si guadagnerà il nome di chrysaetos, l’aquila d’oro.
Al ritorno ne parlo con Riccardo, di questa visione insperata e soprattutto dell’effetto che provoca. Lui mi ringrazia della condivisione di quest’esperienza. Mi ricorda che appena sotto la cima c’è il suo nido, anzi i suoi nidi, la sua casa diffusa, dove al ritorno ritrova la compagna fedele. Le aquile reali sono rapaci speciali. Sono molto protettivi verso la loro famiglia e si tramandano i nidi di generazione in generazione. Che non sono nidi qualsiasi ma vengono costruiti pazientemente sulle rocce, nelle piccole grotti, a terrazza, a nicchia, lunghi 4 o 5 metri e larghi due o tre. Le coppie di aquile non ne usano uno solo, ma diversi, anche sulla stessa parete.
Le aquile reali in Valnerina, sulle nostre montagne dell’Italia centrale hanno avuto un rapporto difficile con gli uomini. Dalla valle o sui sentieri le hanno guardate con il rispetto dovuto a un animale che da sempre ha un ruolo importante nella nostra immaginazione e nei nostri miti e che c’incute meraviglia e preoccupazione, come un fulmine che esplode all’improvviso. Il rapimento degli agnelli o di altri animali d’allevamento ha però reso le aquile reali nemiche insidiose da combattere per i danni che arrecavano al pari dei lupi per le greggi e delle volpi per i pollai. Così negli anni cinquanta del secolo scorso chi le uccideva ne ostentava i corpi anche a Spoleto, sul corso a beneficio dei fotografi dei giornali locali. Le cronache raccontano anche di un cacciatore che si calò sulla parete del Coscerno per portarsi via due aquilotti appena nati. Poi sparò alla madre impaurita, uccidendola. Il padre, di fronte a questo scempio, planò sul costone, ghermì delle pietre e alzandosi in quota le fece cadere addosso all’uomo, scacciandolo, seppur troppo tardi.
E oggi che di aquile ne sono rimaste così poche e che nessuno, o quasi, deve difendere le greggi o i propri animali d’allevamento, in quest’Appennino spopolato e disabitato?
L’apparizione/avvistamento dell’aquila resta un segno portentoso. Appare come uno spirito d’Appennino, lo spirito della sua stessa selvaticità che non dipende da noi umani, benché ci crediamo padroni di ogni cosa.
“L’aquila se la osservi in volo e se riesci a entrare nel suo punto di vista ti fa capire quanto sei minuscolo e ti mette un dubbio sul tuo ruolo in questo mondo”, dice Riccardo.
È lo spirito della selvaticità che non può essere sconfitto. È il segno che le montagne non sono degli uomini, che bisogna condividerle con la loro flora e la loro fauna, come sapevano bene i nostri antenati. E che ogni progetto di riabitare l’Appennino non potrà fare a meno di una visione ampia come quella delle aquile reali.
Noi e il selvatico dovremmo lottare e poi abbracciarci come nella danza amorosa delle aquile calve, descritta nel film “Chiamami aquila” con John Belushi, dove lui, giornalista famoso di città, e l’ornitologa che vive in cima alla montagna, prima si odiano e poi si amano.
Come le aquile reali del monte Coscerno, che hanno un simile rituale d’accoppiamento e sono ancora lì a guardarci dall’alto, noi…piccoli come formiche.