Montagna madreMontagna musa

I timidi dèi della tramontana

L’inverno rende i boschi essenziali e le faggete più sacre di quanto lo siano in primavera e in autunno. Nelle giornate di tramontana le faggete ululano al cielo, ma te lo lasciano vedere, te lo indicano quasi, ti fanno alzare la testa e lo sguardo. L’azzurro, il biancore dei rami spogli e dei tronchi come colonne antiche, il tappeto di foglie, la terra gelata che crocchia sotto le suole degli scarponi. In mezzo ci sei tu. Dentro. Finalmente dentro qualcosa di reale.

Nella complessità delle strategie del riabitare l’Appennino abbandonato c’è anche questo. Andarci, passarci del tempo, non solo per sport o per divertimento. Per riportarsene a casa un po’. Per cominciare a ricostruire l’Appennino dentro di noi. Per rientrare nei luoghi abbandonati, sentirne le voci.
Cosa ci farai con queste sensazioni? Non si sa. Lo sai solo tu, anzi lo sa la tua anima più profonda e più antica. Quella appenninica e italica. Intanto oggi hai di nuovo assaggiato il benessere della fatica di una salita senza meta, della stanchezza, di una birra alla fine della passeggiata, dei gatti che ti vengono incontro, di un piatto di pasta insieme. Hai giocato a confondere la tua ombra con quella dei tronchi degli alberi. Hai seguito le tracce dei selvatici. Hai sperimentato la malinconia di una casa abbandonata, di un bosco non curato, di un eremo senza eremiti. Ma hai visto il cielo e il sole come non li potrai mai vedere in uno schermo o in un poster. Te ne potrai ricordare, sempre, in ogni tua azione, se vorrai.

Riabitare l’abbandono significa prima di tutto provare a fare un’operazione culturale. Significa il superamento dell’ipertecnologia e dell’iperecononia. Significa accettare di nuovo di fare i conti con la natura piuttosto che solo con il proprio io. Ma la ricostruzione dei villaggi, dei paesi, delle case, forse anche di una nuova economia, di un nuovo rapporto con il paesaggio, son tutte questioni che vengono dopo.
Prima bisogna tornare a parlare con i luoghi e a percepirli.

Ogni luogo nasconde una mitologia. Gli dèi si nascondono ma i luoghi che li hanno generati restano. Quando Hölderlin, Heine, Shelling cercavano di rifondare una mitologia che sostenesse idee nuove, non trovavano gli dèi dell’oggi e neanche le comunità adatte a riconoscerne i misteri: perciò erano costretti ad evocarli con i nomi antichi.
Ripartire dai luoghi essenziali d’Appennino, in una giornata di tramontana e faggete significa camminare per cercare di rimettersi in contatto con dèi che forse han cambiato nome, ma che, timidamente, si nascondono dietro i tronchi e lassù tra i rami mossi dal vento. Significa provare a riaprire le porte, prima ancora che ricostruire materialmente le case. Significa provare ad ascoltare il canto di Orfeo reinterpretandolo nella modernità. I luoghi erano e restano le porte. I luoghi naturali o quelli sui quali le generazioni passate hanno lasciato un segnavia, che non è facile da vedere come quelli del Cai, ma che indica il sentiero lungo e tortuoso verso un Appennino riabitato non solo da uomini e donne, ma anche da un nuovo senso del sacro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *