Montagna madre

L’uomo-cervo e i semi delle Mainarde

Può un uomo-cervo morire e poi rinascere seminando ogni anno nuove primavere?
Può un rito antico, anzi arcaico, morire e poi rinascere, tenendo accesa una fiammella di vita e di speranza nell’Appennino abbandonato?
Sulle Mainarde la tavola è apparecchiata. E non si tratta solo di quella con la tovaglia e le specialità molisane.

Qui siamo in uno dei tanti “altrove” appenninici. Sotto al Monte Marrone è aggrappato il minuscolo paese di Castelnuovo al Volturno. Poco più in là, a un tiro di schioppo, c’è Scapoli, il paese delle zampogne. Più in alto ecco Rocchetta al Volturno. Piccole comunità, spolpate dall’emigrazione verso l’estero prima, poi verso il Nord, o verso la costa.
Se li osservi dal belvedere di Scapoli ti rendi conto di quanto la natura sovrasti i villaggi. Poco oltre, sui Monti della Meta e sui Marsicani, magnifiche quinte naturali con le cime innevate, gli insediamenti umani sono ancora più rari. Lì, per tanto tempo, è stata solo terra di pastorizia nomade o transumante.

Il Monte Marrone e Castelnuovo alle sue pendici

Difficile allora pensare che chi vive qui possa dimenticarsi del contesto, che possa non riconoscerne più i simboli, i legami, il genius, nonostante tutto. Eppure stava succedendo.

Sopra Castelnuovo a pochi metri dalla vetta del Marrone a 1800 metri d’altitudine, si trasferì nel 1919 un pittore francese, Charles Moulin in una capanna da lui stesso costruita. Moulin già amico di Matisse voleva sentirsi nella natura, un po’ come Henry David Thoreau. Ma Moulin, a differenza dell’autore di Walden, fece una scelta più radicale: rimase sull’aspro monte di Castelnuovo fino alla morte nel 1960. Non gli interessavano mostre, onori e riconoscimenti. Disegnava a pastello per la sua anima, o per una forma di pecorino da scambiare con i suoi quadri.

Charles Moulin

Il monte Marrone non è però il monte di Moulin, né degli uomini che lo abitano, di quelli che sono rimasti, o di quelli che ci hanno abitato per secoli. Il Monte Marrone e le Mainarde sono parte della natura, dei viventi, uomini, animali e alberi che vi sono ospitati e del cosmo che li governa.

Questa è la tavola apparecchiata nelle Mainarde, ampia e complessa. Tanto ampia da avere la necessità di aggrapparsi ai simboli, a qualcosa che tenti di rimettere insieme tutto, provando a fare ordine, come nei miti.

L’uomo-cervo è un rito che si celebra nell’ultima domenica di Carnevale a Castelnuovo. Da quando? E chi può saperlo? È un problema da antropologi. Fatto sta che come racconta Ernest Carracillo, musicista e anima dell’associazione “’Gl’ Cierv” di Castelnuovo, nel 1960, lo stesso anno della morte di Moulin, se ne andò in America l’ultimo paesano che interpretava il Cervo. E il Cervo rischiò di morire.
Ma il Cervo non può morire. Per farlo rinascere da questo lungo e innaturale letargo, ci voleva l’anima e la sensibilità di un ragazzino, quale era Ernest negli anni Settanta del secolo scorso. “Avevamo un piccolo circolo di lettura e la maestra ci chiese di fare delle ricerche sulle tradizioni del paese: io scelsi il rito dell’Uomo Cervo che avevo sentito raccontare dagli anziani”.
A volte basta soffiare sotto la cenere e il fuoco si ravviva, come per una piccola magia. Così, tra alti e bassi, tra tanta buona volontà di una comunità piccolissima ma che – evidentemente – ha ancora voglia di fare e di stare insieme, con l’aiuto e il sostegno di qualche appassionato e ricercatore dall’esterno, l’uomo cervo torna in paese, scendendo di nuovo dalle Mainarde con la sua compagnia.

In una fredda e bagnata domenica di febbraio siamo qui, a Castelnuovo, dopo la musica delle zampogne e le danze delle janare, ad aspettare il rito e la sua enigmatica eppure chiarissima pantomima, sotto l’acqua, ma in tanti.
Che sia diventato solo uno spettacolo per turisti?
Gli apparati tecnici, le luci, l’amplificazione….eppure quando Gl’ Cierv irrompe in piazza con le sue grida, la sua rabbia, i suoi gesti inconsulti, scatta qualcosa che va oltre il tempo.

L’Uomo cervo ha il volto nero (“Una volta era annerito con il carbone dei bracieri dove si cuocevano le salsicce”), un grande palco di corna di legno (“Quelle vere di cervo peserebbero troppo”) ed è vestito con un costume peloso (“All’inizio erano pelli di capra che gli venivano cucite addosso”). Lui è lo spirito della natura cattiva dell’inverno. Ad ammansirlo ci prova la Cerva, suo alter ego femminile. Ma non basta e l’Uomo Cervo si scaglia violentemente contro i popolani sul bordo della piazza (“Prima il rito non si faceva in piazza, ma Gl’ Cierv passava di casa in casa, la domenica mattina dopo la messa, spaventando le donne). Serve qualcos’altro. Ed ecco così comparire al centro della scena un uomo vestito con una tunica bianca e un cappello a forma di cono anch’esso bianco. Si chiama Martino e in mano porta un bastone che presto si trasforma in torcia (“All’origine Martino portava una frasca di vischio con la quale frustava il cervo e la cerva”). Fatto sta che Martino, (evidente simbolo di luce e con qualche similitudine alla maschera di Pulcinella), prova anche lui ad ammansire l’uomo e la donna cervo, annunciando, con il suo biancore, che la luce sta tornando e l’inverno sta per finire. Non basta ancora: la luce di febbraio non è sufficiente a placare l’inverno. Serve che il popolo ne prenda consapevolezza. E qui s’inserisce un irresistibile tentativo di dialogo (l’unica azione parlata della pantomima) tra una vecchia popolana e i cervi tenuti alla corda da Martino. L’anziana (una che ha vissuto tante primavere…) li irride, li insulta, gli lancia degli ortaggi e gli offre la polenta. Ma niente! Serve il colpo di scena finale. Invocato dal popolo arriva così in piazza il cacciatore, armato di fucile (“Magari prima sarà stato un coltello, o una lancia…”). Un cacciatore ben strano, perché in pochi minuti uccide i due cervi, ma poi si china su di loro, gli soffia nell’orecchio e gli restituisce la vita. Gli animali-inverno, ovvero la dynamis della natura, si rialzano ma non sono più le bestie orribili e violente di prima. A questo punto la piazza tace, il rito è al suo culmine e manciate di semi di grano vengono lanciate tra il pubblico che – se riesce ad afferrarli – li conserva gelosamente come simboli apotropaici, mentre al centro Martino accende un grande falò e le zampogne tornano a suonare insieme agli organetti.

Tutto è dunque pronto per la rinascita: la pantomima ha seminato anche quest’anno. Si tratta di un rito cambiato rispetto a quello originale? Troppo spettacolarizzato? Ma a cambiare è stato soprattutto l’Appennino e conservare in tasca due semi di grano alla fine del rito è un segno di speranza non tanto per il futuro raccolto, per il quale da cittadini, non siamo più preoccupati, ma per il futuro delle comunità delle nostre montagne e della loro cultura. Per dare speranza servono tanti interventi concreti, tanto lavoro, ma serve anche soffiare tra la cenere delle favole e degli antichi miti.

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