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Il respiro della montagna che cambia

L’incanto delle montagne nell’era post-isolamento
un progetto di Francesco Pierini con la collaborazione di Peakshunter Mountain Guides
“È possibile valorizzare territori montani, la cui economia è basata sul turismo di massa, con una nuova forma di turismo più sostenibile? È una scelta razionalmente plausibile, oltre che economicamente percorribile, considerando che si fonda su un’idea di turismo del tutto differente? Quali vantaggi potrebbe determinare? Con quali conseguenze?”

Testi di Silvia Pergami e Francesco Pierini
Fotografie di Francesco Pierini
Supporto tecnico e logistico di Peakshunter Mountain Guides
Abbigliamento e attrezzatura di Ferrino Outdoor

Il progetto: da cosa nasce l’idea
Il progetto nasce dalla collaborazione tra Francesco Pierini, un fotografo specializzato in riprese outdoor e le guide alpine di Peakshunter Mountain Guides, professionisti certificati per attività in quota, tour e trekking per appassionati di montagna.
L’idea di partenza è quella di raccontare con le immagini un viaggio itinerante mirato a documentare il recente ritorno dell’ambiente montano ad uno spazio di libertà e di esplorazione, anche grazie alla pratica di discipline come lo scialpinismo.
Negli ultimi anni il prevalere della visione turistica su quella esplorativa ha gradualmente condotto verso un approccio poco sostenibile nei confronti dell’ambiente montano e alpino. Le finalità economiche hanno stravolto la prospettiva di scoperta degli spazi e delle tradizioni delle terre alte, trasferendovi concetti poco vicini agli autentici valori della montagna.
L’attuale momento storico segna un’importante fase di riscoperta delle terre alte, oltre che una occasione senza precedenti, nel passaggio obbligato dal turismo di massa, ormai non più sostenibile, verso un più consapevole turismo di qualità.
Il progetto nasce dall’idea di documentare come oggi l’ambiente montano stia tornando ad essere un “rifugio liberatorio” e non più un’affollata meta del turismo di massa, grazie alla pratica di discipline come lo scialpinismo.
Come conseguenza alle restrizioni sanitarie, si sta assistendo ad una rivalutazione delle attività gradualmente abbandonate dopo il boom degli impianti di risalita: oggi tali discipline rinnovano il loro significato originario, restituendo una ritrovata dimensione del vivere gli spazi della montagna, che richiede maggiore rispetto per tempi e prerogative che tali spazi pretendono di diritto, nell’offerta di ampi margini di benessere e inestimabili occasioni di divertimento.

Perché lo scialpinismo?
Lo scialpinismo, tra tutte le discipline amatoriali di alta quota, è forse l’attività legata alla montagna che meglio interpreta i concetti astratti di libertà e di rispetto dell’ambiente. Nessuna infrastruttura artificiale a motore, nessun impatto ambientale e soprattutto nessuna possibilità di assembramento.
Di qui l’idea di raccontare una montagna da scoprire a passo d’uomo, nel rispetto dei tempi della natura, raggiungendo la cima con le proprie energie, per godere dall’alto di sconfinati panorami verso valle, lasciando libero spazio all’immaginazione e all’ispirazione. Fino a dove lo sguardo può spingersi, oltre la linea sottile dell’orizzonte.
Facendo un passo indietro nella storia, c’è chi direbbe “la necessità aguzza l’ingegno”: lo scialpinismo è infatti nato come modalità di spostamento durante la stagione invernale e fu proprio tale esigenza a muovere i precursori di questa disciplina nelle loro prime sperimentazioni di tecniche di salita e di discesa, attrezzature e materiali, assai diversi da quelli oggi a disposizione degli appassionati.
Lo scialpinismo, nella sua essenza più autentica, incarna lo spirito di esplorazione e scoperta che l’uomo ritrova nel contatto diretto con il paesaggio e la natura, lontano dalla sua zona di comfort, dalle abitudini e dalla dimensione “urbana”.
Ecco perché è stato proprio lo scialpinismo il cuore pulsante di questo viaggio, il filo rosso di questo racconto emozionale, la dimensione autentica in cui tornare ad esplorare se stessi.

L’idea diventa percezione
L’esperienza itinerante vissuta tra i monti del massiccio del Gran Sasso, nata dall’idea di riscoprire la dimensione esplorativa sci e pelli ai piedi, si è rivelata, nel corso della nostra avventura, come un viaggio a più dimensioni, in un contesto severo e affascinante.
La difficoltà tecnica degli itinerari, la loro apparenza insidiosa e mai banale, sono stati importanti stimoli allo spirito di esplorazione che era il cuore del progetto e ne è diventato l’emozione costante, nell’amplificare ogni percezione e nell’acuire il senso di limite. Un contesto montano davvero unico, dove riscoprire, attraverso il viaggio itinerante, il desiderio di scoperta di luoghi con gli sci ai piedi, per tornare ad orientarsi con gli elementi della Natura più selvaggia e più vera.
La scelta di uno scenario di grande bellezza è stata quasi obbligata.
Il Gran Sasso: una montagna severa ma di spettacolare imponenza, la più alta e la più conosciuta dell’intero Appennino, “il punto di riferimento, il centro di gravità per chiunque in Appennino faccia dell’alpinismo, dello scialpinismo, per il semplice escursionista” . Una montagna che affascina per la sua singolarità: non assomiglia alle Alpi e nemmeno alle Dolomiti, sorprende per la ripidità inaspettata dei suoi pendii, per l’immensità dei suoi valloni a perdita d’occhio.
Un paesaggio dove lo sguardo spazia attonito tra panorami di rara bellezza, nel quale la luce gioca a nascondino tra i rami delle faggete incantate, creando sfumature cromatiche dai colori pastello con i muschi e con i sassi dai riflessi avorio, per poi tornare abbagliante nel contrasto con le linee pulite dei profili rocciosi affilati contro il cielo cobalto. Una scenografia davvero speciale per ritrovare una dimensione di incanto e di grande ispirazione, per ricominciare a sognare e a sperare un futuro in cui ripartire proprio dalla Natura.

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Comunità montane: tradizioni e cambiamenti
Per comprendere profondamente i cambiamenti del nostro vivere la montagna oggi con un approccio diverso e rinnovato, per effetto dei necessari adattamenti che la pandemia ha introdotto, può essere utile e particolarmente illuminante analizzare il ruolo della comunità montana nel periodo antecedente il nuovo mondo post Covid. La montagna, e in generale i territori alpini sono da sempre stati un luogo particolare, una sorta di rifugio dallo stress e dai ritmi frenetici della vita urbana, un ristoro per corpo e mente, una meta di evasione e di rigenerazione fisica e spirituale. La montagna è oggi un ambiente sempre più prezioso e più ricercato proprio in forza di questi suoi aspetti, soprattutto dopo questo periodo di grande instabilità e generale disorientamento che ha fatto rivalutare l’importanza degli spazi aperti e il valore della natura. Spesso si è parlato della Montagna come di un “rifugio liberatorio”, ad indicare un luogo in cui l’armonia e il benessere umano sono aspetti essenziali e irrinunciabili, pur in una dimensione di grande rigore e necessario adattamento ai fattori naturali.
Al termine del secondo conflitto mondiale, molti abitanti delle Terre Alte, tra cui artigiani, contadini, allevatori e custodi delle tradizioni della cultura tradizionale montana, sono stati “prelevati” per alimentare la forza lavoro delle industrie nelle grandi città. Salvo rare eccezioni, questo processo ha determinato, nei decenni, un progressivo smantellamento di intere comunità montane, che ha condotto allo spopolamento di numerosi ambiti territoriali vallivi, causando spesso la scomparsa di piccole realtà socio-culturali e di fragili economie locali di cui oggi, durante i vari periodi di lockdown, abbiamo improvvisamele compreso l’importanza e l’unicità.
In molti dei villaggi abbandonati e dei nuclei rurali più isolati, però, le piccole attività tradizionali e l’artigianato locale sono rimasti legati alla passione di alcuni per la conservazione dell’identità locale, delle memorie e dell’eredità degli anziani: negli ultimi anni, grazie a queste sporadici ma capillari piccoli mondi familiari, si è riorganizzata una rete di micro-economie che ha riscoperto la dimensione della produzione a Km0, consolidando il valore dell’eccellenza certificata e della qualità “homemade”.

Effetti della pandemia
Qualcosa è improvvisamente cambiato: negli ultimi 10 anni, in alcuni territori si gradualmente assistito ad una radicale e inattesa inversione di tendenza, in un ritorno dei giovani alla vita rurale, agli spazi delle colline e, infine, anche ai paesaggi montani.
Il Covid-19 ha rappresentato un punto di svolta in questa fuga dalle città, accelerando ulteriormente la consapevolezza dei limiti della vita urbana, soprattutto in situazioni di emergenza come quella vissuta a livello globale in occasione della pandemia.
La montagna come luogo in cui tornare a vivere e a “respirare”, una frontiera con spazi e valori che improvvisamente si sono rivelati determinanti per la salute e la qualità dell’esistenza, dimostrando alle nuove generazioni di essere molto più che un luogo di svago e di divertimento. In molti contesti alpini e montani si sta oggi assistendo a un graduale ripopolamento: un processo che non interessa ambiti di villeggiatura o località esclusive frequentate dal turismo delle seconde case o in prossimità di impianti sciistici e luoghi dotati di servizi di accoglienza a 5 stelle per i consumatori di weekend in modalità “mordi e fuggi”.
Al contrario, si sta assistendo ad un ritorno in zone dimenticate da tempo, più isolate e spesso più difficilmente raggiungibili, per una scelta di vita più radicale, mirata all’idea di un trasferimento di medio-lungo periodo, apprezzando la vicinanza con una natura autentica e incontaminata, a volte addirittura selvaggia e rivalutando i valori umani e relazionali autentici, che ancora oggi luoghi come questi riescono a trasmettere.
Forse stiamo gradualmente ritornando ad una frequentazione della montagna più intima e più consapevole, che implica un approccio più rispettoso della cultura e degli spazi delle terre alte, dei ritmi e degli equilibri del territorio alpino soprattutto nelle relazione con i suoi abitanti e con le tradizioni locali.
L’illusione di poter “comprare” l’esperienza alpina solo per il fatto di poterla acquistare on-line attraverso la prenotazione di un pacchetto “all-mountain” deve fare i conti con l’attuale stop tecnico al turismo di massa imposto dalle restrizioni e forti limitazioni che la pandemia globale ha imposto, a tutti, in modo molto democratico e senza differenze di “portafoglio”. La disponibilità economica non è più sinonimo di garanzia di accesso, anzi spesso il fattore determinante è la capacità di rinunciare a certi comforts e ad adattarsi all’ambiente montano, assai diverso, in moltissimi aspetti, da quello cittadino.

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La percezione dei gestori dei rifugi
A giugno dello scorso anno sono stati pubblicati gli esiti di un interessante studio intitolato ‘Il turismo in montagna in tempo di CoViD-19. La percezione dei gestori dei rifugi delle Alpi’ : una ricerca effettuata da Riccardo Beltramo e Stefano Duglio, Professori del Centro Interdipartimentale NatRisk – Centro di Ricerca sui Rischi Naturali in Ambiente Montano e Collinare dell’Università di Torino, finalizzata a raccogliere l’opinione degli operatori del settore dell’accoglienza alpina e, in particolare, dei gestori dei rifugi dopo la fase I del Covid e, soprattutto, dopo l’esperienza del primo lockdown post-pandemia.
Lo studio, condotto su circa 600 gestori di tutto l’arco alpino, ha evidenziato che i principali cambiamenti (oltre a quelli climatici riguardanti tutto il nostro pianeta) hanno interessato le modalità di accesso e prenotazione (molti rifugi hanno scoperto l’importanza di internet e dei canali social per farsi conoscere e promuovere le proprie attività) e la tipologia dei nuovi ospiti (primato degli escursionisti e dei trekkers, seguiti dalle famiglie e dall’associazionismo, dagli alpinisti e da una quota crescente di mountain bikers; fanalino di coda i falesisti (o climbers), abituati alle gite in giornata o al bivacco autonomo, per lo più non in struttura).
Oltre il 50% dei gestori ha inoltre evidenziato un importante aumento nei costi dovuto agli interventi introdotti, a seguito della pandemia, per la messa in sicurezza degli spazi comuni e per garantire l’applicazione delle regole di sanificazione degli ambienti e il distanziamento tra i fruitori delle strutture, oltre all’acquisto dei dispositivi di protezione individuale, dei prodotti igienizzanti, importanti voci tra quelle dei nuovi costi (stimati tra il 20 e il 40% di incremento rispetto agli anni passati). I gestori sono, di fatto, degli imprenditori della Montagna e la loro attività di impresa risulta molto impegnativa, non solo perché richiede conoscenze, competenze ed abilità di vario tipo, ma soprattutto perché si svolge in un ambiente fragile e in condizioni talvolta difficili, spesso rese estreme da fattori fisici ed ambientali (approvvigionamento idrico ed energetico, rischio di valanghe e fenomeni franosi, difficoltà di rifornimento, accessibilità…).
Ecco perché i gestori sono spesso molto consapevoli di come il turismo debba essere sempre più attento a rispettare le regole, gli spazi e le modalità della loro fruizione: la Montagna si deve vivere, non consumare o, peggio, snaturare per assecondare vizi e pretese di chi, senza conoscerla, pensa di poterla sottomettere e trasformare in nome dei profitti e delle mode. Per questa ragione spesso i gestori dei rifugi collaborano con iniziative qualificate per la promozione del turismo sostenibile e si fanno portavoce dei temi ambientali in opposizione ad interventi infrastrutturali che interessano importanti modifiche dell’assetto morfologico e naturalistico degli spazi della Montagna.
Ripartire dalla Montagna, per salvaguardarla e restituirle la sua natura di luogo selvaggio, dove l’Uomo è solo un Ospite, che può diventare Abitante solo accettando di essere parte di un eco-sistema complesso, di un habitat molto severo, governato da Elementi naturali, che concede spazi e emozioni forti, ma richiede rispetto, conoscenza e consapevolezza, soprattutto dei limiti che la Montagna impone nel suo essere, allo stesso tempo, fragile e forte, bellissima e rude, aspra e rigogliosa, accogliente e solitaria.
Un luogo dove il respiro si perde, ma solo perché sopraffatto dallo stupore dell’immensità e dal blu accecante del cielo sopra le vette.

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Turismo montano: prospettive per il futuro
Ci siamo chiesti… è possibile valorizzare territori montani la cui economia è basata sul turismo di massa con un turismo più sostenibile? È una scelta razionalmente possibile ed economicamente percorribile, considerando che si fonda su un’idea di turismo completamente differente? Quali vantaggi può determinare? Con quali conseguenze?
Tre sono i fattori che incidono in particolare sul turismo montano: la stagione invernale, la presenza di strutture ricettive e il turismo straniero, che tendenzialmente ha maggiori disponibilità e quindi è portato a spendere di più. In montagna è la stagione invernale a essere, ovviamente, la più trainante dal punto di vista economico.
Fatto 100 il valore aggiunto portato dal turista invernale, quello estivo porta un valore aggiunto mediamente della metà. Se analizziamo il tipo di offerta ricettiva, gli alberghi generano un ritorno economico triplo rispetto ai B&B e di cinque volte quello dei campeggi, perché offrono servizi aggiuntivi che quindi costano di più e fanno salire il valore aggiunto del turista per il territorio. […] Si tratta di ragionare in termini di valore aggiunto di ogni turista, per avere sempre meno necessità di dover puntare sulla quantità, perché il turismo montano deve considerare la sua sostenibilità nel territorio.”
Compresa questa premessa, si può facilmente intuire quale importanza abbia oggi affrontare la questione in termini qualitativi, superando la concezione del turismo “consumista” e dei grandi numeri per abbracciare una nuova prospettiva di turismo più centrata sui temi della qualità e della sostenibilità.
Purtroppo la montagna ultimamente ha vissuto un vero e proprio attacco da parte di “instragrammers” e “social influencers”, il cui approccio è raramente mirato a valorizzarne le peculiarità per stimolare conoscenza e consapevolezza nei suoi potenziali fruitori, anzi è spesso solo incentrato sul numero di like da totalizzare o di divisualizzazioni da ottenere.
Una visione puramente estetica e troppo commerciale rischia di rivolgersi ad un turismo più interessato al “selfie di vetta” che all’esperienza vissuta per raggiungere la meta. Un turismo che vede la montagna come conquista, la vetta come collezione e la natura come sfondo.
Il punto centrale è che, in conseguenza della maggiore appetibilità della montagna nell’era post-Covid, anche il turismo montano dovrà scegliere quale immagine veicolare e se investire o no in servizi più strutturati, riconvertendo le strutture esistenti per renderle funzionali alle nuove esigenze, Di fatto se innescare un processo virtuoso in grado di generare più valore aggiunto per il territorio e garantire maggiore qualità per l’ambiente e l’intero eco-sistema.
Magari investendo anche nelle attività di piccola e media impresa, accrescendo il numero di persone che in montagna desiderano trascorrere periodi più lunghi e possibilmente anche lavorare, nelle nuove forme dello smart working a distanza, creando imprese non solo turistiche, ma anche nuovo know-how, nella consapevolezza che il futuro è nella qualità e nella sostenibilità. Proprio in tema di smartworking, si è visto un riuso delle “case-vacanza” nella loro nuova funzione post-pandemica di “case-lavoro”, accanto alla promozione di spazi “in quota” all’interno dei rifugi o degli spazi accessori degli impianti di risalita come possibili postazioni destinate al co-working e al lavoro a distanza, in uffici affacciati sul panorami esclusivi (il ghiacciaio del Monte Bianco, solo per fare un esempio).
E’ dunque oggi necessario provare a proporre una nuova idea di montagna, nella quale le attività outdoor come scialpinismo, trekking, mountain walking, mountain biking possano alimentare nuovi desideri di esplorazione e riportare un turismo più consapevole e più sostenibile in comprensori e valli duramente colpite dalle conseguenze economiche delle stagioni bloccate dai continui lockdown.
Sono sempre di più gli appassionati di montagna ispirati da suggestioni e aspettative diverse, non più focalizzate solo su fattori come la comodità e la facile accessibilità, ma spesso disponibili a sperimentare esperienze più autentiche e più stimolanti proprio perché collocabili oltre il limite della zona di comfort a cui impianti, infrastrutture e grandi numeri ci hanno abituato, anestetizzando i nostri bisogni più reali, come la libertà e il desiderio di esplorazione.
La montagna è sinonimo di silenzio, un luogo di pace, in cui ci si incontra sul sentiero, nei boschi, ci si saluta e si socializza con spirito di empatia, con la gioia della condivisione, nella dimensione di scoperta reciproca attraverso il valore del dialogo. Sono questi i valori che cerchiamo e che proprio la montagna ci sta insegnando a riscoprire e riapprezzare. Insieme all’importanza della salute psicologica delle persone, agli effetti benefici che camminare negli spazi aperti e incontaminati può garantire, anche come utile medicina natural per contrastare lo stress, la depressione e aumentare le difese immunitarie e il benessere fisico generale.

Il cambiamento in atto: la voce dei rifugisti
A conclusione di questa esperienza, ci è sembrato importante raccogliere il contributo di alcune voci del mondo alpino e montano, non solo come contributo al quadro generale e alle tematiche affrontate dal progetto, ma soprattutto come racconto dal vivo di chi la Montagna la conosce profondamente perché la vive come professione. Ci è sembrato che proprio queste voci potessero restituire in modo autentico, senza filtri, la situazione di grande cambiamento in atto, aprendo una prospettiva di speranza per quel necessario processo di trasformazione verso scenari futuri di miglioramento.
Scenari di ritrovata promozione e rilancio sostenibile, che dovranno essere delineati per la Montagna, ma soprattutto condivisi da coloro che desiderano continuare a frequentarla e a conoscerla davvero, rispettandone regole e valori, negli spazi aperti come nelle strutture che li presidiano e li rendono fruibili.Dal Gran Sasso siamo risaliti lungo gli Appennini, fino alla Regione Valle d’Aosta, dove abbiamo incontrato alcuni gestori e titolari di rifugi molto conosciuti, che ci hanno regalato con gioia alcune loro impressioni.
Corinne Favre, titolare del rifugio Quintino Sella, nel massiccio del Monte Rosa, base di partenza per ascensioni alpinistiche alle vette di Castore e Lyskamm, a circa tre ore di cammino dall’arrivo degli impianti di risalita di Champoluc/Gressoney, raggiungibile da itinerario non turistico, di media difficoltà e del ristoro in quota Campo Base, meta prettamente invernale in prossimità degli impianti di risalita di Champoluc – Val d’Ayas.”A proposito del Quintino Sella, i cambiamenti legati alle norme di prevenzione da contagio Covid si sono sommati a quelli relativi alla ristrutturazione del rifugio. Nel complesso abbiamo a nostro avviso migliorato il modo di lavorare e il comfort dei clienti riducendo della metà la capienza del rifugio. Questo senza incidere troppo sulle presenze complessive perché le prenotazioni sono state spalmate durante tutti i giorni della settimana (e non solo gli usuali tre/quattro giorni di massima affluenza). La difficoltà che talvolta si presenta è rassicurare i clienti sul rispetto delle norme sanitarie e distanziamenti. Oppure l’invitare i clienti stranieri a rispettare regole come l’uso mascherina (si parla della scorsa estate, dunque il Covid era spauracchio soprattutto per noi italiani, mentre gli altri paesi erano ancora inconsapevoli). Il rapporto con i clienti è direi migliorato perché notiamo una maggior disponibilità a andare incontro a piccole regole di convivenza per il bene di tutti. Abbiamo introdotto cambiamenti di sanificazione ambiente e di gestione delle presenze che intendiamo portare avanti anche a emergenza conclusa perché ci hanno fatto scoprire un modo di lavorare più sostenibile per noi e i clienti. Tutto sommato l’esperienza shock ha anche portato buone cose e siamo fiduciosi nella prossima stagione estiva in arrivo! Incrociamo le dita!”

Armando Chanoine e Mauro Opezzo, gestori dei rifugi Torino e Monzino sul versante italiano del Monte Bianco, punti di riferimento dell’alpinismo classico e meta per appassionati di montagna provenienti da tutto il mondo. “Il quadro complessivo, nonostante la riduzione dei posti e il distanziamento, è che in molte più persone hanno cercato di avvicinarsi alla montagna e agli sport outdoor perseguendo la “libertà” nelle terre alte. Il Monzino, in particolare, è sempre stato un rifugio per alpinisti, ma l’estate scorsa ha visto un aumento esponenziale del turismo. Escursionisti e trekkers, di solito orientati verso mete piu tranquille, si sono avvicinati anche solo per mangiare una polenta o godere dell’immenso panorama, chi alzando il proprio livello e chi affidandosi ad una guida professionista. Gli alpinisti, soprattutto italiani, assidui frequentatori del luogo e forse economicamente più alle strette, hanno optato per gite più lunghe andando a ricercare i bivacchi a quote più alte senza fare la classica tappa in rifugio per bere o ristorasi prima del proseguo del tragitto.”

Tiziana Berthod, gestrice del rifugio Federico Chabod nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, base di partenza per la salita alpinistica all’unica vetta solo italiana tra i 4000 delle Alpi e meta classica per turisti, escursionisti e famiglie. “E’ innegabile che la situazione vissuta a causa del Covid ci metta, come rifugisti, di fronte alla necessità di accettare profondi cambiamenti nel nostro lavoro, con la consapevolezza che certi numeri siano ormai lo specchio di un passato che non tornerà. Le restrizioni richieste nei protocolli di distanziamento e da noi applicate con rigore la scorsa estate hanno determinato, di fatto, una riduzione del 60% rispetto agli anni precedenti. Pur lavorando intensamente nei mesi estivi, siamo riusciti solo a far fronte alle spese, solo grazie ad una riduzione dei costi di affitto. L’incremento delle spese legato alla sanificazione quotidiana degli ambienti ha inciso pesantemente sia in termini di costo, sia in termini di personale ed ore di lavoro effettivo. Ma la passione per il lavoro ci spinge a trovare nuovi stimoli: il rifugio resta una meta per escursionisti e famiglie, oltre che per alpinisti e trekkers, sia italiani che stranieri. Speriamo che la montagna continui ad esercitare il suo fascino come luogo di fuga, in modo da continuare, come gestori, ad essere un punto di riferimento e una destinazione di ristoro e di accoglienza per molte persone. E guardiamo avanti con speranza e fiducia in nuove prospettive.”

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Alcune riflessioni conclusive
Al ritorno dal viaggio itinerante sugli Appennini, l’immagine delle seggiovie immobili degli impianti sciistici di Campo Imperatore e Prati di Tivo è stato di stimolo per una riflessione più generale sul futuro delle attività fino ad oggi legate al turismo sciistico tradizionale, nella stagione invernale appena trascorsa durante la quale lo sci è stato ampiamente sostituito da discipline come lo scialpinismo e lo sci di fondo. Un dato evidente, riscontrato anche dai maggiori brand del mercato internazionale, che hanno assistito a picchi di vendita in attrezzature e abbigliamento legati al mondo dello sci senza impianti.
Nelle realtà montane più colpite dagli effetti della chiusura degli impianti e dell’isolamento forzato dovuto ai divieti di spostamento tra Regioni e proprio in alcuni dei maggiori comprensori sciistici alpini, come ad esempio la Valle d’Aosta (Monterosa, Cervinia, Courmayeur), la Lombardia o il Trentino Alto Adige, molte persone si sono rivolte allo scialpinismo per mantenere vivo il loro contatto con la neve e con la montagna: questo però ha richiesto un radicale cambio di prospettiva, oltre all’accettazione di un approccio non più focalizzato su fattori come la comodità e la facile accessibilità.
La necessità di tornare a sentirsi liberi, nonostante i molti condizionamenti, ha forse portato a sperimentare esperienze più autentiche e più stimolanti, proprio perché collocabili oltre il limite di quella zona di comfort a cui impianti, infrastrutture e grandi numeri ci hanno abituato, anestetizzando alcuni dei bisogni più reali, come la libertà e il desiderio di esplorazione. E portandoci a considerare scontate emozioni irrinunciabili come lo stupore per la bellezza e l’incanto dei luoghi della natura.
Alcuni rifugi, sebbene ancora chiusi a causa del lockdown, sono diventati mete di itinerari in giornata, lungo tracciati di salita normalmente serviti dagli impianti, luoghi perfetti per il cambio-pelli o per brevi soste di ristoro con thermos e barrette energetiche. Mantenendo la loro funzione originaria di punti di riferimento per i fruitori, hanno confermato l’importanza del loro rappresentare una meta rassicurante, luoghi della memoria già frequentati e fondamentali luoghi di incontro e conoscenza.
Oggi vengono rivissuti insieme ai paesaggi di cui sono immagine e presidio, nella dimensione di una collettiva capacità di adattamento e di ritrovamento interiore, anche grazie a nuovi fruitori, appassionati di esplorazioni solitarie e felici di sperimentarle con sci e pelli ai piedi, lungo itinerari di scoperta sempre stimolanti e diversi.
Un modo davvero speciale per ritrovarsi e rinascere, migliori di prima.

Bibliografia e fonti
• Luca Mazzoleni, “Scialpinismo in Appennino Centrale. La montagna incantata”, Iter edizioni, 2014
• Diego Cason, ISTAT Datawarehouse e uffici statistica regionali e provinciali, maggio 2020
• Riccardo Beltramo e Stefano Duglio, “Il turismo in montagna in tempo di CoViD-19. La percezione dei gestori dei rifugi delle Alpi” – ricerca effettuata dal Centro Interdipartimentale NatRisk – Centro di Ricerca sui Rischi Naturali in Ambiente Montano e Collinare dell’Università di Torino – giugno 2020

Francesco Pierini
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Peakshunter Mountain Guides
https://www.instagram.com/peakshunter_mountainguides/
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