Figli del Toro, la guerra d’Appennino tra Italia e Roma
Un tempio sospeso su un terrazzamento alle pendici della montagna dedicata alla Grande Madre. La vista che spazia su una amplissima valle verde, bordata da montagne innevate; i capi di otto popoli che salgono la scalinata di pietra, accompagnati dal suono lento e cadenzato delle zampogne, per giurarsi alleanza nel nome di una patria nuova e antichissima. Contro una potenza ormai consolidata e minacciosa, alla quale non intendono sacrificare ulteriormente la loro libertà e la dignità.
Nella nostra Terra di Mezzo non ci sono hobbit, elfi, nani, uomini di Rohan o di Brea. Piuttosto v’incontriamo Marsi e Frentani fieri combattenti, Vestini, Marrucini, Peligni, Irpini, Piceni, Lucani e, soprattutto, gli indomiti Sanniti.
Però è sempre una Terra di Mezzo quella raccontata, come al solito con grande maestria, da Nicola Mastronardi nel suo nuovo romanzo storico “Figli del Toro”. Una terra sacra, colma di avventura, magia, paesaggi immensi e carichi di fascino naturale. Una terra che non ha nulla di meno rispetto a quella immaginata dal professor Tolkien. Ma questa è la terra dei Figli del Toro, ed ha anzi qualcosa di più, perché è una Terra di Mezzo reale, nella quale si combatte non la Guerra dell’Anello, ma la guerra d’Appennino.
La guerra definitiva, che i nostri libri chiamano guerra sociale e datano all’inizio del primo secolo avanti Cristo. Una pagina di storia che in molti abbiamo trascurato, sottovalutato, studiandola svogliatamente nei libri di scuola, ma che è stata la più grande e l’ultima delle battaglie che hanno contrapposto i due principi fondanti della nostra Nazione: Italia e Roma.
Ora, se si vuole intuire il senso della nostra identità nazionale attraverso gli eventi storici che così l’hanno determinata e, allo stesso tempo, intendere il peculiare modo di essere, pensare e sentire degli Italiani, occorre, come dicevano i Penati in sogno ad Enea, ritrovare la Madre antica, contemplando l’alterno prevalere dei due archetipi della nostra Nazione: Roma e Italia.
Pio Filippani Ronconi
Perché sì, l’Italia non nasce 150 anni fa ma due millenni prima, almeno. Quando su quella scalinata di pietra sotto la Majella e appena sopra Corfinio e la conca peligna di Sulmona, come immagina Mastronardi nel suo ultimo romanzo, i capi, ovvero i meddìss dei popoli degli Appennini giurarono di essere una nazione confederata e scelsero di chiamarsi Italia, forse in memoria dell’animale sacro dei Sanniti, quel toro del quale si dissero figli e che li condusse nelle loro terre, nell’ancestrale primavera sacra voluta dai loro padri Safinos, i Sabini. Sotto quel tempio di Eracle, concluso il giuramento, Corfinio fu così la capitale di una nuova Nazione, Italia, Viteliù. Quinto Poppedio Silone embratur dei Marsi e Gavio Papio Mutilo, Gaavis Paapìis Mutili, embratur dei Sanniti, ne furono i condottieri.
“Gli dei sono favorevoli al patto. Di tutto questo siano testimoni Kerres e Angitia, Honos e Viktorro, cui ugualmente saranno resi sacrifici nei giorni stabiliti”.
Figli del Toro – Nicola Mastronardi
Se Viteliù, il primo romanzo di Mastronardi, era la narrazione di un’epopea, attraverso i ricordi di un nonno sconfitto reso cieco dai nemici che trasferisce la sua memoria e l’amore per la sua terra al nipote nel corso di un lungo viaggio verso la propria patria, e nell’anima appenninica, Figli del Toro entra nel cuore dell’epopea della guerra sociale e ne racconta la prima parte, quella più favorevole agli italici. Una guerra di assedi (come quello di Isernia) e di agguati alle legioni romane, di massacri e di sangue. Una guerra nella quale il furore italico sembra prevalere, contro una Roma che non vuol riconoscere il ruolo di Italia e il debito che ha nei confronti dell’Appennino e dei suoi popoli. Una guerra che mescola onore e orrore, come tutte le guerre e che l’autore sceglie di raccontare non solo dal punto di vista degli uomini che combattono, ma anche e soprattutto da quello delle donne che li attendono, con angoscia, speranza e disperazione e che – più dei loro compagni – percepiscono la crudeltà e – in alcuni casi – l’inanità – dello scontro.
Figli del Toro di Nicola Mastronardi è il primo libro di una trilogia che promette di restituire all’Appennino la sua epica e che – dopo tanto sangue versato ristabilirà il legame tra Italia e Roma.
Un romanzo storico complesso che riconsacra i luoghi più affascinanti e più misteriosi delle nostre montagne di mezzo: il santuario della nazione sannita a Pietrabbondante, dove risiede la rossa e temuta profetessa di Viktorro, il lucus di Angizia, con l’altra profetessa il cui ricordo è ancora vivo nelle feste popolari dedicate ai serpenti nei borghi d’Abruzzo; il santuario di Ercole Curino sulle pendici del Monte Morrone; Alba Fucens, colonia romana sopra il lago del Fucino, sotto le gobbe gemelle del Monte Velino, obiettivo dell’armata italica, come Aesernia, come Grumentum.
Su tutto il mistero degli dei, l’orgoglio della propria terra, l’amore per la libertà, la fierezza delle proprie tradizioni, ma anche l’amicizia di due bambine che va oltre l’odio tra i popoli e le guerre e, infine, la strabordante bellezza dei luoghi d’Appennino.
“Una faggeta meravigliosa. Di quel bosco aveva sentito parlare, ma era la prima volta che le capitava di attraversarlo. Alberi imponenti, altissimi. Il sottobosco rado e umido, con il fondo di fogliame che attutiva il rumore degli zoccoli della giumenta. Un bosco all’altezza della sua fama, pensò Detfri, mentre dallo stretto altopiano ancora non invaso dalle acque invernali saliva verso il Colle dell’Orso. La natura seppe sorprenderla anche in quel luogo. Stupendo”.
Figli del Toro – Nicola Mastronardi
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