Dal caos nascerà un nuovo Appennino?
Tutto a un tratto stiamo imparando che i soldi spesi per comprarci il Suv sono stati molto meno utili di quelli che avremmo potuto mettere a disposizione della sanità pubblica per contribuire all’acquisto di un ventilatore per la rianimazione. Allo stesso tempo apprendiamo che in alcune situazioni un dovere vale più di un diritto. Forse arriveremo pure a comprendere che cinque chili di farro, o una forma di pecorino, valgono più di una carta di credito di plastica. E perfino che la morte fa parte della vita.
Stiamo di colpo prendendo consapevolezza che avevamo confuso il significato di cosa fosse realmente essenziale. Che senza neanche un grande sforzo, potremmo fare a meno di cose finora reputate irrinunciabili, come una nuova smart tv, o una vacanza alle Seychelles ad esempio, ma che ben difficilmente riusciremmo a rinunciare ad altre cose finora ritenute perlopiù superflue, come una passeggiata all’aria aperta, nei giardini, o nei boschi vicino casa.
Forse il virus ci costringerà al reset. Forse la terra stessa (intesa come sistema vivente) si sta resettando: è già successo, succederà ancora. Ma c’è una novità: per la prima volta a rischiare il reset è un sistema globale, culturale-economico-finanziario-digitale. Ma proprio per questo, per la sua enormità e pervasività, occorrerà prestare molta attenzione agli eventi, perché tale sistema nasconde armi e strumenti di difesa maggiori e più subdoli di quelli dei virus. Ed è mutante quanto un virus.
Ma noi siano in Appennino e anche qui il reset di sistema ed il conseguente choc potrebbero cambiare alcune prospettive, invertire, o accelerare dei processi.
Occorre iniziare a chiederselo: nell’Italia del dopo-virus, cosa cambierà? Le terre fino a ieri marginali quale destino avranno? Nel prossimo mondo sottosopra che ci attende all’uscio si dovrà e si potrà tornare a lavorare, a vivere, nascere, curarsi, studiare, creare, inventare, nei territori interni del nostro Paese oggi in gran parte abbandonati?
Forse sì, se il reset imponesse l’accorciamento delle distanze tra produttori e consumatori, se si tornasse – almeno parzialmente – a privilegiare le filiere locali.
Sì, se il distanziamento sociale causato dalla paura dei virus si traducesse non nel rinchiudersi nella propria bolla digitale (opzione gradita al vecchio sistema), ma in uno “sparpagliamento” nei territori abbandonati del nostro Paese e nella ricostituzione di comunità reali basate sulla partecipazione e la collaborazione.
Sì, se la digitalizzazione venisse riconvertita a strumento di servizio e connessione tra comunità “sparpagliate”, per la realizzazione di una società “cellulare”.
Sì, se la riapertura di una porta celata e il ritorno in una dimensione culturale non esclusivamente improntata alla razionalità, come conseguenza dello choc attuale, ci costringessero di nuovo al confronto con i luoghi reali e naturali.
Nella crisi più acuta del mondo moderno, l’Appennino suggerisce non verità, ma opzioni, con la saggezza dei vecchi che raccontano il loro vissuto ai giovani. A patto che ci sia qualcuno che abbia voglia di ascoltare e che sia capace di interpretare i racconti adattandoli al contingente. Ecco sì, dovremo adattarci, questo è sicuro. Ma proviamo almeno ad essere noi gli inventori e gli interpreti del nuovo adattamento. Ascoltando la terra, ascoltando l’Appennino, invocando il suo dio-archetipo più antico: Giano divinità della fine e dell’inizio di ogni ciclo.
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