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Pasqua d’Appennino, la resurrezione del sacro

Quando finalmente nella notte di Pasqua si sciolgono le campane che erano state legate il Giovedì Santo, i bambini vengono fatti rotolare per terra durante i rintocchi e gli anziani corrono ad accoppiare i rami degli alberi da frutta in fiore. Ma non basta: nei giorni precedenti, in tanti piccoli paesi d’Appennino, si compiono riti altrettanto singolari.
I ragazzi giocano a fuori il verde, nascondendo un ramoscello fiorito nelle tasche dei pantaloni. Altri percuotono il pavimento della chiesa con i bastoni che poi, spezzati, servono ad accendere il fuoco dal quale si ricaveranno le ceneri da utilizzare l’anno successivo nel mercoledì antecedente la Pasqua. Interi, invece, quegli stessi bastoni, saranno usati per costruire le croci da piantare nei campi per la salvaguardia dei raccolti dalla grandine e dalle intemperie. Così come i ramoscelli d’olivo benedetti nella domenica delle Palme, che proteggeranno le mura domestiche.

La Pasqua in Appennino è una festa di resurrezione che affonda le radici nella sacralità della terra. E la terra d’Appennino – occorre dirlo – è più antica della Resurrezione di Cristo; così la Pasqua, da noi, è talmente importante che la si comincia a festeggiare già dall’Epifania.
Il 6 gennaio è infatti il giorno delle Pasquelle, o delle Pasquarelle, gioiose cantate di strada per condividere in comitiva il manifestarsi del sacro dopo la nascita di Gesù. Ma per certi versi si può dire che la Pasqua inizi già dal Natale e dal solstizio d’inverno.
Da quel momento oscuro, tragico, eppure carico di speranza, prende le mosse la resurrezione. Il 21 dicembre e il successivo dies natalis, brilla infatti il sole di mezzanotte. Nella massima oscurità, la luce più nascosta e allo stesso tempo più intensa, sostenuta dai fuochi tradizionalmente accesi sulle nostre montagne. Nel buio la luce, nella morte la vita. Il sole ricomincia a crescere, per poi trionfare.

La gran parte delle celebrazioni e dei riti appenninici dei mesi successivi è focalizzata sullo stesso tema: morte e rinascita. Basti pensare alla Candelora, alle varie eredità dei Lupercalia, alle feste di San Biagio e di San Valentino nel mese della purificazione, febbraio, al carnevale e alla sua uccisione, oppure a quella della vecchia che finisce segata, poi ai riti di marzo, il mese di Marte dio delle primavere e ai rituali della Quaresima, fino ad arrivare ad aprile, il mese dell’amore, il mese che apre i semi e la terra coi suoi sepolcri invernali….quando Cristo risorge e con lui la primavera.

Tutto ruota intorno al più grande mistero percepito da uomini e donne, soprattutto da coloro che vivono immersi nel mondo naturale, nelle stagioni e che si nutrono dei prodotti della terra. Come gli uomini e le donne d’Appennino.
Qui, da millenni, la fragile esistenza umana che si sviluppa in un tempo lineare (nascita, infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia, morte), viene messa a confronto con il tempo ciclico della natura dove all’inverno segue sempre la primavera. Il tempo ciclico è quello della speranza, della resurrezione, della primavera – appunto – che cancella il buio e le paure dell’inverno.

Rispetto agli dei, a tutti gli dei, la questione non sta nel credere ma nel riconoscere. Ci sono luoghi, momenti, esseri, incroci di elementi, che fanno dire, come a Ovidio: “Numen inest“, “Qui c’è un numen“, quella potenza che non ha bisogno di nomi, ma dà origine ai nomi. Il discrimine sta nel riconoscerla e accoglierla – o invece passarci accanto.

R. Calasso – Il Cacciatore Celeste

Per questo la nostra terra d’Appennino, con le sue tradizioni sacre che travalicano i millenni e le religioni, è così preziosa: perché ad ascoltarne a fondo l’anima, racconta ancora oggi quel che accadeva quando “gli dèi non erano una fede, ma un’evidenza, un modo di percepire il fatto di essere vivi”. Ovvero è testimone vivente del tempo in cui si prestava fede non tanto agli dèi, ma al divino – tò theion (θεῖον) – che preesiste agli dèi.

I riti del fuoco – Foto di Filippo Perpetua

In alcune località dell’Alta Valnerina, giusto nell’area centrale degli Appennini c’era l’usanza dei sepolcri germinanti. Una tradizione condivisa anche in diverse altre regioni appenniniche del Centro e del Sud. In alcuni vasi di terracotta veniva seminata lenticchia e orzetta. I vasi venivano tenuti sempre al buio, così i germogli crescevano e si sviluppavano bianchi. Il Venerdì Santo questi vasi speciali con i germogli bianchi venivano portati in chiesa e posti sotto l’altare a testimoniare la forza della natura, capace di far nascere la vita anche nel buio più profondo, o di farla risorgere dai semi, di fronte alla potenza del Cristo Morto, che in breve diventerà il vittorioso sulla morte.
Ebbene, questa stessa tradizione – come spiega Mario Polia nel suo libro Tra cielo e terra, la si ritrova in tradizioni ben più arcaiche, lontane nel tempo e nello spazio, praticata dai fedeli di Adone-Tammuz, o da quelli di Osiride, dio morto e risorto nel cui nome, nella tomba di Tutankhamon erano disposti dei vasi colmi di terra nei quali era stato seminato grano, al buio.

Ma ecco che qui (nella Pasqua ndr) si forma una nuova associazione di simboli, inquantoché in primavera la Terra e le morte ‘scorze’ si aprono e sorgono erbe, vegetazioni e fiori – si producono cioè le emergenze dei ‘poteri’.

J.Evola – La tradizione ermetica
San Pietro in Valle – Ferentillo – Valnerina

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