Di chi siamo figli
Chi siete? A chi appartenete? Di chi siete figli?
Le domande risuonano tra le montagne dell’entroterra, nel paese dei coppoloni, nell’Alta Irpinia di Vinicio Capossela, come lungo le strade tra i borghi della dorsale da Nord e Sud, quelli dai quali non si sente mai l’odore del mare, a meno che non te lo vuoi immaginare quando tira forte il libeccio o la buriana, dove tanti sentieri s’incrociano e c’è sempre la necessità di riconoscere i luoghi dai quali provieni e quelli verso i quali stai andando.
Chi sei, a chi appartieni? Di chi è figlio l’Appennino?
Ci potresti passare un pomeriggio e una serata a pensarci e poi a raccontarglielo a chi ti ferma lungo la via per farti questa domanda, e magari sa già la risposta, ma vuole solo esser certo che tu la condivida, che tu non sia un estraneo, che apparteniate alla stessa famiglia, seppure grande e lunga.
E così ti perderesti per mille altri sentieri, dicendogli che sei figlio di molte Grandi Madri, di Kerres e di Cupra, di Maja e Lucina, di dee, sacerdotesse, streghe e fate, come Angizia conoscitrice di veleni ofidici e di erbe medicamentose che crescevano sulle rive del grande lago del Fucino, o come la regina Sibilla che aveva il suo regno nell’ombelico d’Italia, nel ventre della terra e del nostro inconscio, dove risiedono creature splendenti e serpenti, allo stesso tempo.
Gli diresti che sei figlio di Saturno, di Giano e di una triade di dei che arrivarono da molto lontano, cavalcando nelle grandi praterie e oltre i valichi più elevati, ma che sono rimasti attaccati alle rocce grabovie delle nostre montagne e che si muovono nell’ombra dei luci, nei boschi consacrati dai raggi filtranti del sole, amplificandone le ierofanie.
Che sei figlio di Marte, soprattutto, come Romolo e Remo. Di quel Marte-Mamerte guerriero e pastore, protettore delle greggi e delle toute, dei territori tra le montagne, delle primavere sacre. Di quel Marte, che attraverso gli spiriti degli animali guidò i suoi figli affinché divenissero i tuoi Padri giù per la catena di montagne che si abbracciano e lungo il corso del Tevere.
Gli diresti che sei figlio di un longobardo che qui vide per la prima volta la spada di Odino nelle mani di un arcangelo. Che sei figlio di Benedetto di Norcia e di Francesco d’Assisi, che camminarono su questi stessi sentieri con passi molto diversi, interpretando la nuova fede e adattandola sulla natura, o nella natura.
A chi appartieni?
Gli diresti che sei figlio di un contadino che scolpisce un baffardello sulla pietra arenaria o che teme d’incontrare un regolo restandone incantato; di un ciarlatano che canta in ottava rima storie che si perdono nella notte dei tempi, o le dicerie sulle donne del villaggio accanto, aiutando la lingua con un fiasco di vino.
Figlio di una giovane cafona che balla il saltarello e si sente come Maria nel giorno della Candelora, che mette da parte le uova delle galline per scambiarle con la conserva di pomodoro, prima della dittatura del denaro.
Di un pastore che fa cacio e caciara, che cammina l’Appennino in su e in giù sui tratturi delle grandi transumanze. Che sei anche figlio dei banditi e dei briganti, dell’anima nera, sulfurea e ribelle di una terra in apparenza quieta, ma mai prona.
Gli diresti che oggi sei fratello di chi immagina queste montagne come un luogo da ri-abitare e le considera come una terra che ci potrà sfamare la pancia e riempire di nuovo l’anima, che ci potrà lavare lo spirito, che ci fa intravedere un altro futuro, un’economia diversa rispetto a quella che ci sta consumando, che ci sta bruciando e divorando….
Che sei fratello e figlio di chi è stato capace, sempre e in qualsiasi epoca, di alzare gli occhi dalla terra del lavoro e guardare l’orizzonte. Di chi in quell’orizzonte fatto di profili di montagne che si rincorrono, di nuvole, di cielo, di verde, blu e azzurro, riesce a scorgere la bellezza attraverso la quale porre rimedio alla sofferenza e a trovarne un senso; di chi è ancora capace di intravedervi il volto misterioso degli dei, il futuro oltre la miseria e le ricchezze, oltre i terremoti e le epidemie, oltre gli oggetti e il proprio io.
Ecco da dove veniamo e a chi apparteniamo, noi figli dell’Appennino. E se la risposta è sufficiente, chiediamo gentilmente il passo per andare oltre.
Foto di copertina tratta da “Il brigante Piccioni” degli Abetito Galeotta