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La notte dell’Epifania, quando l’Appennino cantava la Pasqua

La BefanaDiana e le sue ancelle, i Re Magi, il Sole che torna e il Bambinello; i canti dei pastori, le libagioni, le uova, un po’ di vino e le ricchezze della terra da spartire, come in una vera comunità.

Sulle montagne d’Appennino s’incrociano mille sentieri. Per l’Epifania si rincorrono mille canti nei paesi non ancora abbandonati e mille voli sopra i loro camini con i fuochi troppo spesso spenti; dovunque si raccontano storie talmente antiche che se n’è quasi persa la memoria e che per questo occorre ricordare, cercandone le radici saporite e ricche d’energie.

Dodici notti dopo quella di Natale, dopo la nascita di Gesù e del nuovo Sole, la divinità  si manifesta. Siamo certi che sia nata, siamo certi che sia tornato a splendere e riscaldare le nostre giornate. Forse anche ad accendere la nostra anima.

E’ la notte dell’Epifania, una delle notti più sacre e sante d’Appennino, quella durante la quale gli animali parlano, e allora bisogna raddoppiare la razione di foraggio, perché sennò vacche e pecore potrebbero dire male (male-dire) il padrone. E sperare che l’effigie di Sant’Antonio, che nei secoli ha sostituito nelle stalle quella di Epona e prima ancora quella della Potnia, possa tenerli a bada, dialogare con loro, far sapere a tutti gli animali che il padrone non è poi così malvagio.

Come non sono certo malvagi i bimbi che ricevono il carbone dalla vecchina-strega-dea volante. Quel carbone, quella cenere, in realtà, sono i resti bene auguranti del falò acceso per bruciare l’anno vecchio. E la strega che vola, la Befana/Epifania è una bella dea, Diana, protettrice dei boschi e dei raccolti, o forse qualcuna delle sue ancelle, che sorvola i campi gettando semi (che oggi sono caramelle e dolciumi) per favorire i raccolti del nuovo anno.

Di fronte a tutto questo ben di Dio (e degli dei) cosa resta da fare, se non cantare. Cantare di casa in casa, di paese in paese, come facevano e come fanno gli stornellatori delle Pasquarelle, nella notte dell’Epifania.

Perché la Pasqua non è una sola, ma almeno tre: quella del Natale, quella dell’Epifania e quella della Resurrezione, alle quali, nelle nostre montagne, si aggiunge anche la Pasqua della Pentecoste. D’altronde il termine Pasqua, che deriva dall’ebraico, pare significhi semplicemente “passare oltre”. E allora tutte queste Pasque che si rincorrono nel ciclo dei mesi non fanno altro che sottolineare i momenti di passaggio più importanti nell’anno solare, nell’anno agricolo.

I canti dell’Epifania, le Pasquarelle, le Pasquette, o le Pasquelle, in tutto l’Appennino umbro-marchigiano e in Abruzzo, sono componimenti poetici cantati di casa in casa da compagnie più o meno improvvisate di giovani musici che percorrevano a piedi borghi e paesi, bussando alle porte.

Nu’ simu venuti
cu’ tutta creanza,
sicunnu l’usanza
la Pasqua a cantà…..

Cantavano per annunciare la manifestazione del divinol’Epifania di Gesù, nel ricordo ancestrale del ritorno della luce, ma reclamavano un compenso, fatto di generi alimentari, vino, uova, salsicce (anche in considerazione del fatto che il maiale veniva ammazzato proprio in questi giorni…).

In questa notte carica di sacralità e di magia pagana si consumava così un altro rito caro alle comunità d’Appennino e al mondo rurale: quello della redistribuzione dei beni nella comunità, dove il troppo è sempre stato considerato contro natura…

Sopra le braccia
ricchezza e quant’abbasta,
sopra le ricchezze
‘na tirata de recchie

Ossia – come spiega Mario Polia (Tra Cielo e Terra) – la ricchezza lecita è quella che basta a riempire le braccia, a soddisfare le esigenze della persona e della famiglia. Il superfluo può essere messo a disposizione di chi ha neppure il necessario per vivere…

A noi date un assaggio
di quello che ci avete
in cielo ne avrete
l’incompenso…

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