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L’ultima pastora tra fulmini, lupi e tasse

Il lupo, il fulmine e le tasse. Dai primi due Manuela sa come difendersi. Dalle tasse no. Manuela è l’ultima pastora, o meglio pecorara della montagna di Cesi. Che è una tosta si vede subito. Capelli corti, maglietta, calzoni sopra il ginocchio e modi decisi.

“Aspetta, c’è una pecora che ha partorito proprio adesso!”. S’infila nel recinto e prende l’agnello appena nato per le zampe. Cerca la madre, che si è allontanata, o si è nascosta. E glielo riporta accanto. Che facesse anche lei il suo dovere, come tutti, qui. Sotto la penna di San Giovanni, tra Cesi e la Madonna dell’Olivo, a pochi metri dalla fontana delle Pisciarelle (“Dove una volta i ragazzi facevano pure il bagno) c’è la vecchia casa simile a tante altre ai piedi del monte dove, fino a trenta, quaranta anni fa vivevano e lavoravano (“Anche tre famiglie sotto un solo tetto”) tanti braccianti e allevatori.

cesiL’oliveto intorno, le papere e le galline ruspanti, il mandorlo, il ciliegio, il noce e gli alberi da frutta. Fuori un po’ di disordine perché quando si lavora non si ha tempo di rimettere tutto a posto. Dentro il laboratorio per fare il formaggio: pecorino, primo sale e ricotte (“Tutto molto semplice, niente roba strana qui”). Sopra camere e cucina. Le altre case intorno o sono abbandonate (“come quelle su alle Prata”), o sono state ristrutturate da gente che sta in città. Il casale di Manuela dunque non è uguale agli altri, proprio perché è l’unico ancora abitato da una famiglia che lavora la montagna. Quella che era una regola è diventata un’eccezione.
Adesso che ha sistemato l’emergenza nel recinto, Manuela ha un po’ di tempo per raccontare qualcosa, del suo lavoro, delle sue montagne, che sono tanto cambiate. E non in meglio.

“La montagna è finita!”, dice con un po’ di rabbia. “Non c’è più manutenzione sufficiente, non c’è acqua, c’è poca cura delle trosce, degli invasi per abbeverare gli animali, i prati e i sentieri si sono riempiti di sterpi”. La montagna che dava da mangiare a tante famiglie, è ora la montagna abbandonata. “Solo le tasse e la burocrazia aumentano e rischiano di schiacciare le piccole aziende familiari, come la nostra”.
Il marito di Manuela, Renato, d’estate sta con il grosso del gregge a Torre Maggiore, a oltre mille metri, dove almeno la notte fa più fresco. Dorme in una capanna di legno. Quattrocento pecore e dieci cani. Manuela e la figlia Silvia fanno su e e giù da Pozzo Saraceno, dalla casa accanto alla quale fra un po’ forse costruiranno una stalla più moderna. Perché loro, gli ultimi pecorai resistenti, che hanno ereditato il gregge e il mestiere dai genitori di Renato, vorrebbero provare a andare avanti. Nonostante tutto.

Manuela non ha paura di niente, o quasi. Non ha paura dei lupi, che sono ricomparsi anche su queste montagne da pochi anni. E che hanno provato a portarsi via una pecora nel luglio scorso in pieno giorno. “Io mi sono messa in mezzo e poi sono arrivati I cani a aiutarmi!”. E non ha paura neanche dei temporali. “Tuoni e fulmini arrivavano da Torre Maggiore, mentre stavo riportando le pecore. Uno c’è caduto addosso, ha aperto il gregge e m’ha quasi sbattuta per terra, stordita. Ma poi mi sono ripresa subito”.
Solo di una cosa hanno paura Manuela e i suoi familiari. Che ci si dimentichi della montagna come luogo di lavoro, come alternativa di lavoro. Che si lascino soli quelli che resistono e che invece potrebbero essere esempio per molti altri.

Perché la montagna è anche questo e non solo il posto dove andare a fare le passeggiate o le grigliate, magari lasciando lì i rifiuti. La montagna vive se viene vissuta da persone che la rispettano, come Manuela, che in questo mondo rovesciato non ha paura dei fulmini e dei lupi e neanche della fatica quotidiana, ma solo dell’indifferenza e dell’ignoranza di chi pensa che lavorare qui sia impossibile, o quanto meno inutile.

www.appenniniweb.it per Il Messaggero Umbria – 3 settembre 2017 – 10

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