Montagna madre

Far pace con gli dèi, per una nuova ecologia d’Appennino

Fare pace con gli dei. Per riabitare l’Appennino e salvarlo dalle speculazioni e dall’abbandono serve anche questo. Serve soprattutto questo: fare pace con gli dèi, con gli dèi dei luoghi, del cielo e della terra, delle fonti e dei boschi. Con gli dèi dei luoghi, di questi luoghi, con gli dèi che gli antichi chiamavano indigetes e che non sono mai volati via, al contrario degli dèi esotici, quelli arrivati dopo. Perché quegli dèi indigeni, a differenza degli esotici, sono stati generati dai luoghi stessi, che ancora ci sono, nonostante tutto.

Un’attualizzazione della pax deorum, concetto tanto importante nel mondo romano, non è dunque una chimera, non deve essere considerata un’azione straniante, uno sconvolgimento della realtà, quanto piuttosto un atto “naturale”. Occorre prendere coscienza che è stata proprio la rottura della pace con gli dèi a causare le fratture che si apprestano a diventare insanabili tra l’uomo e l’ambiente, che stiamo pagando pesantemente e che nessun ecologismo di superficie, nessuna presunta transizione ecologica e nessun venerdì per il futuro potranno, purtroppo, sanare, se privi di una visione più complessiva e profonda.

Fare pace con gli dèi non è dunque un programma di vita neo-pagano, né un monito esoterico. È invece un consiglio pratico che dovrebbe essere alla base di qualsiasi progetto economico ed ecologico per riabitare le aree interne, sia in maniera temporanea che permanente e per riconquistare così, allo stesso tempo, la nostra interiorità, la nostra interezza.

Fare pace con gli dèi, d’altronde, è necessario anche semplicemente per frequentare l’Appennino, per tornare a stabilirci una familiarità, una fratellanza. Per considerare utile lo stare in Appennino non possiamo, infatti, basarci solo sul far di conto. Non bastano i finanziamenti speciali, il sostegno alle imprese innovative, l’ampliamento della banda larga, il telelavoro, la telemedicina, la scuola a distanza, la spinta dei prodotti tipici di qualità, il loro posizionamento sui mercati. A monte di tutto questo ci deve essere la consapevolezza che solo il ritorno (fisico e spirituale) all’Appennino può significare un ritorno alla natura, in primo luogo alla natura umana.

Salire in Appennino, come scrive Giovanni Lindo Ferretti, equivale a confrontarsi col senso del limite e con l’infinito, vuol dire cioè tornare a misurarsi con i parametri entro i quali dovrebbe svolgersi la vita di un uomo che si consideri ancora nella natura e non oltre. Che sia umano e non transumano. Che sia capace di far funzionare i propri sensi per intuire, servendosi dell’esperienza reale, che trascende di gran lunga quella virtuale. (1)

È qui, nell’esperienza reale delle terre interne, dell’Appennino, che si potranno di nuovo incontrare gli dèi, i di indigetes: lo si potrà fare se ci si porrà in ascolto con animo aperto e predisposto allo stupore, oltre i condizionamenti sempre più oppressivi. Lo si potrà fare sulla cima di un monte, in una faggeta, valicando un passo, ascoltando il vento che muove i rami e le foglie di una quercia, o il suono delle acque che scorrono da una fenditura della roccia; osservando una stellata notturna, il volo circolare dei rapaci, il sorgere del sole da un monte innevato; arrossendo per il vento gelido sul viso. I luoghi aiuteranno, gli dèi ritrovati aiuteranno. E la pax deorum si potrà trasformare semplicemente in pax, sciogliendo la complessità della corsa allo sviluppo, nell’accettazione del limite, nella contemplazione dell’illimitato e nell’amore per l’essenziale.

La società alla quale ci chiama il pensiero ecologista – scrive Andrea Scarabelli – non è chiusa ma aperta, al pari delle società tradizionali, spalancate ritualmente sugli enigmi dell’universo. In essa il reale è visto come ierofania, manifestazione immanente delle potenze numinose (Mircea Eliade). (2)

Come in una radura boschiva dove “…la luce filtrante dall’alto lasci intravedere il volto sorridente e ambiguo del dio suonatore di flauto, Fauno che, muovendosi in un sipario di fronde, pare introdurci in un mondo del quale avevamo perduto il ricordo, quanto la percezione interiore: quello delle presenze archetipiche della nostra terra” (Renato Del Ponte). (3)

Ortèga y Gasset attribuiva, in questo stesso senso, all’uomo antico l’esperienza concreta di un cosmo vivente articolato e privo di scissioni. “Dovunque guardasse non vedeva altro che manifestazioni di poteri elementari, torrenti di energie specifiche, creatrici e distruttrici dei fenomeni”. (2)

Nel mondo romano la rottura della pax deorum comportava l’intervento del collegio sacerdotale appositamente adibito alla sua restaurazione. Oggi questo collegio non c’è più. Di qui la nostra aumentata responsabilità verso gli dèi, verso la natura e verso noi stessi.

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1) Non Invano di Giovanni Lindo Ferretti – Mondadori, 2020
2) Le anime del paesaggio di Andrea Scarabelli in “Il silenzio del cosmo – Ecologia e ecologismi”, AA.VV. – Edizioni Arktos, 2021
3) Dèi e miti italici di Renato Del Ponte – Ecig, 1998  










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