Montagna madreSapori

Il pampepato, radici profonde e una storia piccante

Ci sono giorni e odori speciali. Che non riusciresti mai a raschiare dal fondo della tua anima, neanche col cucchiaio di legno con il quale ripulivi la pentola dal cioccolato. I giorni speciali sono quelli del pampepato e degli odori che annunciano il Natale: di miele e cannella, di noce moscata e mandorle tostate, di noci appena schiacciate e di mosto cotto e poi, atchù!!! il pepe nel naso!

D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda, diceva Calvino.

Lo stesso vale per il pampepato, dolce appenninico, natalizio, italico, ternano e valnerinico. Del pampepato non apprezzi i sedici ingredienti, le meraviglie che trasmette al palato o all’olfatto, ma soprattutto la risposta che può dare ad alcune tue domande: da dove viene? Che c’entra il pepe con il dolce? E perché si continua a farlo in ogni famiglia, in città come nei paesi dalla bassa Umbria, fino alle montagne della Valnerina?

La nonna una risposta ce l’ha: perché se fa cuscì, perché s’è sempre fatto.
E non è per niente una risposta semplice.
Tutt’altro: è una risposta complessa come sanno bene gli antropologi, che aguzzano le orecchie quando la sentono…

In effetti il pampepato ha una ricetta e una storia talmente complesse da coinvolgere generazioni, popoli, clan, famiglie e affondare in un inconscio collettivo che attraversa i secoli.

Il pampepato – dice Mario Polia che guarda caso di mestiere fa l’antropologo – è un prodotto in cui confluisce una storia millenaria. Dove riti, tradizioni festive, natalizie e solari si mescolano come nel suo impasto, che si maneggia prima sulla spianatoia fumante e poi nella conca, con le nonne che ridono insieme ai nipoti, concedendo loro di immergere le mani tra quel bendidio, per poi leccarsi le dita impastate di miele, cioccolato e pezzi di noci, mandorle e pinoli.

Il pampepato, come dice il nome, gioca sul contrasto, il piccante e il dolce, il pepe e la cioccolata, la noce moscata e il miele, la tradizione e l’innovazione.
L’abbinamento piccante e dolce arriva dritto dalla cucina dell’antica Roma, perché i romani, molti secoli prima dell’abbacchio e della carbonara, amavano i contrasti: soprattutto il dolce del miele col piccante e con lo speziato.

Dall’antica Roma viene pure l’invenzione del pan di via, un cibo altamente calorico, fatto di noci e nocciole, pinoli, uva passa, che serviva a dare energia ai legionari in marcia verso i confini dell’impero. E il pampepato rientra in pieno nella categoria dei pan di via, è un pane energetico da mettere nella bisaccia.

Anche se qualcuno maliziosamente racconta un’altra storia, secondo la quale il pampepato nato a Terni, nella città dell’amore che sarebbe sacro, in quanto luogo natale di San Valentino patrono degli innamorati, ma che nei secoli divenne anche e soprattutto profano, servisse in realtà a restituire energie a chi trascorreva il tempo nelle vie e nei vicoli della città vecchia, città di passo sulla Flaminia, tra trecento bettole e un bel po’ di postriboli.

Ma queste sono chiacchiere, perché invece il pampepato è un dolce che riunisce le famiglie, sia durante la preparazione che in tavola ed è espressione culturale del popolo appenninico, tanto che usa ingredienti soprattutto autarchici: le mandorle che venivano dall’Alta Valnerina, da Caso, dove per il loro raccolto si usava pregare Santa Cristina e i santi erano spesso raffigurati negli affreschi delle chiesette della valle in una mandorla di luce, simbolo solare di gloria.

La noce, regina del pampepato, frutto altrettanto sacro della prima Italia montana, juglans, la ghianda di Giove, il frutto preferito dal padre degli dei, simbolo di forza, che si tirava addosso agli sposi, con intento beneaugurante.
E poi tutti gli ingredienti che ogni nucleo di coltivatori era in grado di produrre: la farina, le nocciole, il mosto in alcuni casi non d’uva, ma di corbezzolo, ottenuto dalla pigiatura di quella che nell’Appennino centrale viene chiamata cerasa marina, pur stando in montagna e infine il miele, da sempre una strenna natalizia.
Strenna, d’altra parte, è un termine nato proprio negli stessi luoghi dove si gusta il pampepato.  Si dice infatti che risalga al re sabino Tito Tazio l’uso di offrire, come dono per il nuovo anno, i rami sacri tagliati dal bosco di Strenia (lucus Streniae), che era al principio della via Sacra, sul Velia. In origine, alle calende di gennaio si donavano fichi e miele, perché l’anno fosse dolce, le strenne, appunto.

Il pampepato è dunque un dolce natalizio e solstiziale, il dolce della festa più grande e più importante.
Nella società rurale il mangiare quotidiano non era molto vario, mentre la festa ha sempre rappresentato la rottura del tempo ordinario; per questo almeno a Natale occorreva che in tavola ci fosse qualcosa di speciale, di straordinario.

Ecco perché il pampepato è straordinario per molti motivi, non solo per la ricchezza degli ingredienti autarchici e stagionali, ma anche per la capacità del popolo di reinventarlo e d’inserire nella sua ricetta ingredienti nuovi e alloctoni, provenienti anche da molto lontano, ma sempre speciali.

I canditi, e le spezie, pepe, cannella e noce moscata prima e la cioccolata poi, conseguenza del miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie, ma sulla scia della stessa tradizione: il dolce della grande festa, doveva essere speciale e fuori dall’ordinario, anche grazie a questi nuovi ingredienti esotici.

D’altra parte nel Natale s’avverte l’eco del solstizio e degli antichi Saturnalia che nel mondo romano segnavano il ritorno mitico all’età dell’oro dove tutto era in comune, Saturno era il re e l’ordine sociale non esisteva. Un dolce straordinario per un periodo straordinario, una festa di convivialità e di scambio.

A Terni e nel ternano lo scambio natalizio, oltre che per i doni, vale per i pampepati: una volta si diceva che non è Natale se non hai a casa almeno dieci pampepati di dieci famiglie diverse, fatti con dieci ricette segrete diverse. Oggi che la comunità è più sfilacciata, magari ci si accontenta anche di un numero minore, ma il pampepato, magari infiocchettato, resta tra le strenne più gradite, e invariabilmente, quando lo si mangia, scattano la gara sul più buono e il confronto sulla ricetta. Che dunque è una, ma con tante varianti, perché per fortuna, non siamo tutti uguali, ma se ci amalgamiamo bene, siamo più buoni…

Il Pampepato ternano, una ricetta…

  • 1500 grammi di noci sgusciate
  • 300 grammi di nocciole sgusciate
  • 300 grammi di mandorle sgusciate
  • 300 grammi di cedro candito
  • 300 grammi di miele
  • 250 grammi di pinoli sgusciati
  • 400 grammi di uva passerina
  • la buccia grattugiata d’una arancia
  • una grattugiata di noce moscata
  • 2 bicchieri di mosto cotto
  • 200 grammi di farina
  • 700 grammi di cioccolato fondente spezzettato
  • 100 grammi di cacao amaro
  • due tazzine di caffè ristretto (facoltativo)
  • 200 grammi di zucchero
  • una spolverata di pepe nero macinato.


Foto di Roberto Sargentini
Immagine in evidenza tratta da www.santoiolo.com

2 pensieri riguardo “Il pampepato, radici profonde e una storia piccante

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *