Cammini

Appennino, il viaggio degli dei italici

Quante sono le geografie d’Appennino? Quanti gli itinerari? Si può camminare sui tratturi dietro al ricordo (e agli odori) delle transumanze, o sulle orme dei briganti. Su quelle dei garibaldini, oppure sui passi di San Francesco.
Più evanescenti, in apparenza, le tracce degli antichi dei sulle cime o quelle delle migrazioni nelle primavere sacre dei popoli italici.
Eppure c’è anche, solida e levigata come una pietra, una geografia d’Appennino fatta di templi e di aree sacre, di tavole scritte con alfabeti arcaici, di riti silvani e di sibille ctonie.
Su queste montagne i nostri antenati hanno incontrato gli dei, per la prima volta. Le ninfe dei boschi e dei laghi, compagne di Numa, il re Saturno, la grande madre Cupra, la triade umbra, Giove Marte e Vofione, il dio delle porte Ianus.
Se non ce ne ricordiamo spesso è perché questo passato appare remoto.
Ma è davvero così?
Qui, sui monti d’Appennino, la natura parlava quando ancora il senso del sacro non era relegato in una religione.

 

E oggi? Se avete animo aperto, ovvero se le vostre porte della percezione sono ancora socchiuse, non potrete che condividere queste sensazioni nei luoghi sacri più antichi d’Appennino. Che sacri sono ancora. Specie nell’Appennino centrale.
Così si può partire per un (sacro) viaggio ideale tra gli antichi popoli italici, tra Umbri, Piceni, Sabini, Marsi, Pentri, Peligni, Marrucini, Sanniti, Irpini, muovendo dal Palazzo dei Consoli di Gubbio dove sono conservate le sette tavole bronzee con inciso il più antico testo rituale dell’umanità, che consacra alla triade Grabovia, le montagne d’Appennino e la città degli Umbri. Qui si può immaginare di salire sul monte Ingino e riscoprire lo spazio sacro all’interno del quale l’augure interpretava il volo degli uccelli. Oppure si può girovagare nei boschi e provare a ascoltare le preghiere silenti o il potere evocativo della parola nei sacrifici.

« este persklum aves anzeriates enetu
pernaies pusnaes preveres treplanes
iuve krapuvi tre buf fetu arvia ustentu
vatuva ferine feitu heris vinu heri puni
ukriper fisiu tutaper ikuvina feitu sevum »

Perché poi a pensar bene non sono le pietre, né le tavole, non sono le scalinate, gli archi, i basolati a rendere sacro un luogo. No, è il paesaggio, è la vista, è l’aria, sono gli spazi, le selve, i colori e il cielo a impressionare, a farti dire: è il sacro, è la percezione del sacro, è il sacro che si mostra, la ierofania. Tutto il resto è solo sottolineatura, è il segno di un evidenziatore, è un punto esclamativo.

 


Come nella splendida area archeologica di Pietrabbondante, in Molise, con il tempio sociale dei Sanniti che, in mezzo a prati verdissimi, sovrasta l’imponente teatro dal quale ammirare la vastità del territorio e il cielo con le nuvole che corrono spinte dai venti dei Balcani e dell’Adriatico. Qui si ascolta ancora l’eco del leggendario giuramento della legio linteata, prima della battaglia di Aquilonia, che decise la storia d’Italia e di Roma.

… Primoribus Samnitium ea detestatione obstrictis, decem nominatis ad imperatore, eis dictum, ut vir virum legerent donec sedecim milium numerum confecissent. Ea legio linteata ab integumento consaepti, quo sacrata nobilitas erat, appellata est; his arma insignia data et cristatae galeae, ut inter ceteros eminerent…
(T. Livio)

… Quando poi i nobili sanniti si furono vincolati con questo giuramento, il comandante fece il nome di dieci di loro e ordinò che ciascuno di essi scegliesse un altro uomo, e questi un altro ancora fino a raggiungere la cifra di 16000. Quella legione, dalla copertura del recinto all’interno del quale la nobiltà aveva consacrato se stessa, venne chiamata linteata. A quanti ne facevano parte vennero consegnate armi sfavillanti ed elmi crestati, in modo da distinguerli in mezzo a tutti gli altri.

Aquilonia, poi Agnone, città della tavola degli dei. Un’altra tavola di bronzo, come quelle di Gubbio, ritrovata, venduta e poi trovata di nuovo come solo può accadere nelle vicende rocambolesche italiche, ben più reali e affascinanti di quelle alla Indiana Jones
La tavola di Agnone ci racconta di Cerere e delle feste primaverili, i floralia, intorno all’altare del fuoco. Evoca una natura animata dagli dei, ce ne trasmette un elenco:

 

Kerres, ovvero Cerere,
Evklúí Patereí, corrispondente a Mercurio
Futreí Kerríiaí,  corripondente a Persefone
Anter Stataí, ovvero Stata Mater, la levatrice che aiuta le donne a partorire
Ammaí Kerríiaí, corrispondente a Maia, dea della primavera
Diumpaís Kerríiaís, ossia le Ninfe delle sorgenti
Liganakdíkei Entraí, ossia la divinità locale della vegetazione e dei frutti
Anafríss Kerríiuís, ossia le Ninfe della pioggia
Maatúís Kerríiúís, ossia la divinità locale del parto e della rugiada
Diúvei Verehasiúí, ossia Giove Virgator, che presiede l’alternanza della stagioni
Diúvei Regatureí, ossia Giove Pluvio
Hereklúí Kerríiúí, ossia Ercole
Patanaí Piístíaí, ossia la dea del vino, della spiga di grano e della trebbiatura
Deívaí Genetaí, ossia Mana Ganeta
Pernaí Kerríiaí, ossia Pale, la dea dei pastori
Fluusaí, ossia Flora

Poco più a Nord , il tempio di Ercole Curino sul Morrone, sopra Sulmona, un terrazzo spettacolare sulla valle Peligna appena cento metri sotto lo sperone dove poi venne costruito l’eremo di sant’Onofrio che ospitò Pietro Angelerio, papa Celestino V, a  pochi chilometri da Corfinio, luogo fatidico della lega italica nella guerra sociale d’Appennino contro i romani, dove venne coniata la prima moneta con la scritta Italia.
Su tutto la Majella, le montagne della ninfa Maja, la bella addormentata. Da qui la realtà si mostra nella straordinaria complessità del suo ordito.

 

E alla fine i vostri piedi su questi sentieri, sono quelli dei vostri antenati d’Appennino, perché la terra e le pietre che calpestate sono sempre le stesse e identica è la visione, se le porte del tempio interiore restano aperte. Così la via degli dei d’Appennino si snoda, con semplicità, oltre il tempo. Come è naturale che sia.

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