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La cena dei briganti

Dal giardino di casa della signora Iride non puoi fare a meno di guardare verso la montagna dei Fiori. Al tramonto è uno spettacolo. Il profilo delle vette si accende con il verde dei prati sommitali illuminati dall’ultimo sole. Il confine corre lì sotto, molto più in basso della cima e delle lingue di neve che maggio non è ancora riuscito a sciogliere.
In cucina le figlie e le nipoti di Iride preparano i porcini che Giovanni ha trovato nei boschi abruzzesi, i boschi dei Regnicoli. Dopo un po’ il loro profumo si confonde con quello della frittura di olive ascolane, immancabili sulle tavole in questa parte della Terra di Marca. Di qua e di là dal confine, inevitabilmente, i sapori s’incontrano e si confondono. E con loro le storie.

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Frittura, risotto ai porcini e storie da matti
C’è una cena che ti aspetta a Folignano, sulle colline ascolane. Tra la città e la montagna dei briganti, tra due regni, due epoche e tante cose da chiedere, altrettante forse da ascoltare e da immaginare. Un grande tavolo unisce tutto. E tutti. Una famiglia numerosa, un desco circondato da sedie diverse tra di loro; in mezzo la grande pentola del risotto coi porcini. Nonni, nonne, figli, nipoti, nuore, generi, cognati, sorelle. E tu che vieni da fuori e che sei lì per cercare di scoprire se una favola raccontata davanti ad un bicchiere racchiuda più verità di un libro di storia stampato. Che sei lì per cercare di capire non si sa cosa su certi inafferrabili briganti che tanto tempo fa si dice girassero da queste parti. Non sai cosa ti diranno e non sai cosa chiederai. O forse sì: una domanda senti di averla. Ma ce l’avrai chiara in testa solo se intuirai la risposta alla fine di tutta questa storia, o almeno alla fine della cena. Intanto hai una sedia anche tu, che pensavi quasi di non vederla più una tavolata così, che in effetti non la vedevi da quando eri ragazzino, nella tua campagna, sulle tue colline, in un’altra terra benedetta d’Appennino.
Quell’Appennino che è confine, ma che è anche luogo d’incontro, che respinge, seduce e attrae; montagne affascinanti e scontrose, ammalianti e pericolose, come le ancelle della regina Sibilla. Montagne che fanno uscir matti, che trasformano i contadini in briganti, i pastori in guerrieri, i guerrieri in meschini.

I gigli dei regnicoli
Se guardi fuori dalla portafinestra della casa di Iride, al calar del sole puoi immaginarli, briganti e guerrieri, mentre percorrono i sentieri della montagna dei Fiori, tra Castel Folignano e Civitella, e puoi anche immaginare un confine che non c’è più, quello tra lo Stato Pontificio del Papa Re e il Regno di Napoli dei Borbone. Poi te ne indicano un altro che c’è ancora: la linea ideale che separa Marche e Abruzzo, che sta sempre lì, più o meno dove passava il confine di prima, però senza gigli borbonici e chiavi di San Pietro.

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Tra confini e anarchi
Intanto si sta facendo notte e di confini a quest’ora non ne puoi vedere più; l’abbaiare di un cane scaccia, per il momento, le ombre dei briganti. Non resta che sedersi a tavola per la cena e godere dei sapori che la cucina di Iride ha orchestrato per te, per tutti.  Porcini e frittura vanno giù insieme al vino rosso e si mischiano ai racconti sugli Sciaboloni, sui tesori dei briganti, sulle insorgenze di ieri e di oggi, sull’albero di Piccio’ e il terrificante
generale Pinelli, sugli assedi di Civitella Fedelissima, e i blitz briganteschi in Ascoli, su epiche resistenze, coraggiose rivolte, doppi giochi e infimi tradimenti, su carneficine e gesti d’amore, sulla libertà, sul ribelle e sull’anarca. Ma i briganti si nascondono. Oggi come ieri. Per scovarli ci vuole il vino. Come quello che fece addormentare il brigante Angelini, mischiato a erbe che appesantiscono le palpebre, infilate nel fiasco da un traditore a Valle Castellana.

A cavallo di un fulmine
Il vino della tavola di Iride, forte e corposo, rosso piceno, non è avvelenato. Eppure sull’etichetta c’è scritto Velenosi. Ma Velenosi, ti dicono, oltre ad essere una cantina, era il cognome d’un brigante, anzi d’un prete a capo dei briganti. Don Francesco Velenosi, il braccio destro di Piccioni, Giovanni Piccioni da Rocca di Monte Calvo. Quello che cavalcava il fulmine. Che fulmine? E chi era Giovanni Piccioni?
“Cavalcava nu lampe perché il cavallo suo sputava il fuoco”, spiega nonna Iride.
“E Piccioni era il capo dei briganti”.
Ma chi erano ‘sti briganti?
“Erano gente ribelle”.

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Lupi e ribelli
Ribelli, rimugini tra te e te. Ma non erano reazionari, legittimisti, sanfedisti e papalini? O erano prima di tutto innamorati della loro libertà? Non portavano le bandiere dello Stato Pontificio e quelle dei Borbone in testa alle loro bande? O piuttosto nel loro cuore sventolava quella del waldgänger, di chi rifugge le catene e i lacci di qualsiasi potere e cerca il sentiero del lupo tra fierezza e ferocia? Il lupo. A cena, tra una portata e l’altra, racconti che ne hai incontrato un branco poco prima, nella rocca di Civitella. I commensali tentennano, ti guardano di traverso e ti pensano già ubriaco. Ma poi gli spieghi che si tratta di cani-lupo cecoslovacchi, addestrati per accogliere i turisti e i ragazzini delle scuole che vengono ad ammirare le piazze d’armi e le mura possenti della fortezza che per ultima ammainò la candida bandiera dei Borbone nel 1861, quando già, tutt’intorno, perfino i contadini avevano imparato il significato di una parola nuova: annessione.

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La leggenda di  Sciabolone
Un lupo vero c’era, da quelle parti. E si chiamava Giuseppe Costantini, detto Sciabolone. Era nato a pochi chilometri da qui, ti dicono. In un piccolo borgo, Santa Maria a Corte, dove c’è una lapide a ricordarlo e anche un quadro che lo ritrae fiero, con gli occhi chiari e la sciabola tra le mani. Gli anziani del circolo di Santa Maria hanno sentito i loro nonni parlare delle sue imprese, che sono argomento di conversazione quando stanno seduti nella piazzetta delle chiacchiere, la piazza della Leggera. Leggera come è leggero il tempo che trascorre ammaliato dalle parole. Altre piazze esultarono e tremarono per Sciabolone: il bianco travertino di Ascoli si macchiò del sangue dei suoi compari, ma molto più di quello dei bonapartisti e dei giacobini. Perché Sciabolone fu l’eroe dell’insorgenza antinapoleonica, anche se nella memoria degli anziani di questa terra di confine tutto si mescola, tra Sciaboloni e Piccioni, tra francesi e piemontesi.

La catena delle insorgenze
Non c’è problema però. Perché in effetti le insorgenze si confondono e sembrano essere l’una la continuazione dell’altra: si saliva in montagna, si passava al bosco, anzi alla macchia, per difendere il mondo che c’era prima e che qualcuno si voleva arrubbare, come i franzosi che si arrubbarono perfino il Papa a Roma! O come quegl’altri, i Piemontesi prepotenti che si arrubbavano i conventi e facevano le leggi nuove, che si arrubbavano i figli, portandoli via dalla terra per mandarli a combattere per un altro re che – guarda un po’ – anche quello parlava in francese.

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Per il Papa e Franceschiello, o per la libertà?
“Ma come?”, esclami. “Ma che dovevano difendere ‘sti briganti? Non era forse un mondo di miseria quello di Franceschiello e del Papa Re? Non era un mondo di malattie, fatiche e prepotenze?”.
Questo l’hanno scritto i vincitori, ti rispondono. In parte è vero, in parte sono menzogne. Certo è che quello di prima era un mondo più vero e più semplice. “E sai che c’è? Libertà e semplicità vanno d’accordo e invece i cafoni non sanno leggere i codici”.

Furia frechì…
Sciabolone pure lui sapeva leggere poco e male, ma era un lupo. Ancora adesso quando una masnada di ragazzini, furia frechì scengiapagghia come dicono qui, rovescia troppa paglia, fa confusione insomma, per farli star buoni il nonno gli strilla “Attenti ch’arriva Sciabolo’!”. L’uomo nero, il brigante, il lupo. Ma Sciabolone difendeva prima di tutto il suo branco e la sua famiglia. Tanto che, quando cominciò a vedersela brutta, dopo che Civitella cadde sotto le cannonate dei francesi, pensò di tramare con i vincitori contro le altre bande dei briganti. E morì dalla parte dei franzosi che aveva tanto combattuto. Siccome il nome degli Sciabolone non poteva finire in questo modo, ci pensarono i figli a continuare l’insorgenza e anche i tradimenti. Così, dopo il padre Giuseppe, ci provò pure il figlio Giacomo a scendere a patti con i francesi. A lui però andò male, e andò peggio anche a due briganti di Folignano, Pietro Agostinelli e Antonio Chiodi, che erano con la banda Sciabolone, fucilati senza pietà.

La canzone del boia
Altri furono impiccati e derisi dalla canzoncina sul boia di Teramo Mastr’Antonio, canticchiata dai bonapartisti e che ancora qui qualcuno ricorda, come ti racconta uno dei commensali che si diletta  in storia locale.
“Rapacissimi furfanti, vili e stupidi briganti,
Mastr’Antonio vostro amico vi risponde in questo plico.
Se sperate aver perdono, io per darvelo qui sono.
Anzi, a vostra elezione sulla noce o sul quercione.
Non fuggite dai Francesi, né temete d’esser presi,
ch’io vi levo ogni spavento, vi fo dar dei calci al vento”
.

L’albero di Piccioni
Non ce la fecero ad impiccare tutti però. Così lo spirito dei briganti rimase vivo tra queste montagne e l’eco delle risate beffarde degli aguzzini si spense nel fragore di nuove schioppettate. E poi in questa storia, prima che finisca, ci deve pur essere un eroe che non tradisce…
“L’hai visto l’albero di Piccioni?”, dice Iride mentre apre a fatica un librone con la foto del capo brigante. A guardarlo in faccia, questo Giovanni Piccioni che cavalcava un fulmine, sembra che anche a lui piacessero le olive ascolane e poco mostra quel volto della ferocia di un Carmine Crocco, oppure dello stesso Sciabolone.

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L’albero di Piccioni l’hai visto davvero: è un platano millenario costretto dal progresso a respirare in vecchiaia i fumi di scarico dei Tir sulla Salaria. Anche qui, alla cena di Folignano, tutti pensano che sia l’albero dove si nascondeva il brigante. Gli storici lo negano e raccontano di un altro Piccioni proprietario di quel terreno, molto prima che Giovanni arrivasse lì.
Ma che importa? Non c’è storia senza leggenda e non c’è eroe senza monumento. Garibaldi ne ha mille di monumenti. Lui, Giovanni Piccioni, ha solo quell’albero che non è neanche il suo. E pensare che Piccioni riassume nella sua vita tutte le insorgenze: la fase finale di quella antinapoleonica, alla quale partecipò poco più che ragazzino; l’insorgenza contro la Repubblica romana del 1849 e infine quella contro i Piemontesi nel ’60.

Affoghiamo i parnanzoni
“Vogliono proprio essere affogati nel fiume questi parnanzoni”, disse, alludendo ai lunghi cappotti dei soldati piemontesi, quando arrivò l’ultima ondata, quella più cattiva. “E giacché vogliono andare a bere dell’acqua – aggiunse – affogateli nel Tronto!”. Lui era un combattente, difendeva la sua terra e non si macchiò di delitti efferati, al contrario delsuo nemico, il generale piemontese Ferdinando Augusto Pinelli. Giovanni Piccioni attaccava gli invasori. E se si appropriava di qualcosa, portandolo via ai signori, lo faceva in nome del Papa e dello Stato della Chiesa, per la causa dei Volontari Pontifici, lasciando un buono: “Quando tornerà il Papa Re, ti sarà restituito tutto. Firmato il Maggiore Piccioni”. I piemontesi non erano altrettanto magnanimi. Gli uccisero un figlio a tradimento, ma il delatore venne scoperto, preso e freddato dagli uomini di Piccioni fuori dall’uscio di casa.

Un brigante da cantare
Un romanzo la vita di Piccio’. Dovrebbero raccontarla anche a scuola, o in un film. O magari in una ballata. “Ma quella l’hanno già fatta”, dice il più giovane della tavolata e ti mostra su Youtube il video degli Abetito Galeotta, un gruppo musicale del posto, con la canzone sul brigante…anzi sul Maggiore Piccioni.

Tre frati, tre briganti e un mulo
Bella, ma non basta, gli dice un altro commensale, dovrebbero farne una pure per raccontare la sua ultima fuga, quando a 69 anni provò a tornare a Roma dall’unico re per il quale aveva combattuto, il Papa. Ma a fermarlo fu ancora un tradimento. “Lo sai come titolò l’Eco del Tronto dopo la sua cattura? Tre frati, tre briganti e un mulo. Perché stava insieme agli Zoccolanti confidando nell’aiuto di Dio. Non lo ebbe. Però quello che lo tradì morì giovane e in mezzo ai tormenti”.Una tragedia! “No, la punizione di Dio…”.

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A che servono i briganti?
Hai ascoltato, immaginato e bevuto. E il vino, finalmente, ti aiuta a elevare la mente, come dicono gli irlandesi, riferendosi però alla Guinness. E così ritrovi quella domanda che ti ronzava in testa dall’inizio senza riuscire a prendere forma. La domanda è semplice. A che servono, oggi, ‘sti briganti? E la risposta, la tua almeno, ti sembra di trovarla mentre sparecchiano e ti riempiono il bicchiere di liquore fatto in casa, cremoso e squisito, e mentre la signora Iride continua a raccontare le leggende sui tesori che i briganti avrebbero nascosto sotto terra qua e là per le montagne. “Ma non si possono recuperare, perché sono i soldi del diavolo e se qualcuno scava si scatenano gli elementi, succede una tempesta!”.

L’inconscio del popolo d’Appennino
E allora, all’improvviso, ti viene in mente che i briganti sono l’inconscio del nostro popolo d’Appennino, che ogni tanto riemerge, come la lava d’un vulcano. Una zona d’ombra, oppure di luce più profonda, oltre le normali categorie del bene e del male. Il loro codice morale, quando i pozzi sono secchi o inquinati, attinge direttamente al fiume. E attira le giovani menti con una promessa di ribellione e di libertà che sconfina nel mistero del sacro, ovvero rappresenta il modo più naturale di rendere sacro qualcosa, di sacrificarsi, per un mondo diverso, per un sogno. Una promessa sussurrata, intuita, anche senza essere capita fino in fondo, alla quale non sapevano dire di no neppure i frechì e i ragazzotti di Folignano che si aggregavano alle bande. Anche se poi, una volta catturati, ai Carabinieri confessavano di essere stati costretti.

Un fuoco che non si spegne
“Già, ma a che servono oggi i briganti? A cosa serve parlarne?”, ti ripeti.
Finché se ne parla – pensi – il fuoco non si spegne. E il calore di un vulcano che non è spento serve sempre. Anche come semplice avvertimento per chi ci sta seduto sopra e cerca di tapparlo. Allo stesso modo un tesoro nascosto sotto terra, magari molto in profondità, come quello dei briganti – anche se è difficile da ritrovare – c’è sempre. È lì e non si sa mai. Non si può sapere che tempesta si scatenerà quando qualcuno lo ritroverà…
E giù un altro bicchiere di liquore.

Meletti o Varnelli?
A questo punto tutto si confonde. Finita la cena, ti portano al bar. Senti come in un’eco qualcuno che parla della civiltà mediterranea dell’anice, comparando Meletti, Varnelli (in un derby marchigiano), Pastis, raki, ouzo e mistrà. Ti sembra che te li facciano assaggiare tutti, in un colpo solo.
In tv c’è la finale di Coppa Italia tra Lazio e Juventus. Si accende una disputa tra sostenitori locali dell’una e dell’altra squadra. Quello della Juve strilla al filo-laziale: “Papalino!” e l’altro gli risponde “Savoiardo, traditore!”. Ti sembra anche di veder luccicare una sciabola. Ma è solo un bicchiere.

La montagna dei Fiori e dei confini
Poi ti dicono di andare in centro, al centro di Folignano. Ma qual è il centro di Folignano? Il quartiere nuovo verso Ascoli, Villa Pigna, il castello, il municipio? Tu indichi ridendo verso la montagna dei Fiori. Ti arriva una pacca sulla spalla. “Dai, no. È di là!”.
“No, no – gli dici – è di qua!”. E insisti.
Da ubriaco lo sai che il centro di Folignano è il suo confine, quello sotto la montagna dei briganti. È da lì che vengono le sue storie più belle. È solo sui confini che tutto può succedere, oggi come ieri.
Da sobrio ne dici tante di corbellerie, ma quando bevi raramente ti sbagli.

Foto di copertina tratta dal film “La banda Grossi”

(Questo racconto ha vinto il primo premio nel concorso letterario “Brigante se more” a Folignano di Ascoli Piceno, nell’ambito del Festival dell’Appennino 2015)

4 pensieri riguardo “La cena dei briganti

  • Francesco D'Aurelio

    Bellissimo articolo,stupendo,da oggi visiterò sempre il vs sito,grazie di esistere.

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    • Gian Luca Diamanti

      Grazie! Benvenuto allora!

      Rispondi
  • Francesco D'Aurelio

    Complimenti un’articolo bellissimo. “Brigante se more” si è vero ma è anche vero che i briganti hanno ” vissuto” ogni giorno della loro vita .

    Rispondi
  • claudio iannone

    In questa successione di immagini, per chi sente di appartenere a queste terre, è facile leggervi dentro un ‘fil rouge’ che le collega tutte. E non è come un’ameba nel tuo corpo ma va ad incidere e a percorrere la tua anima. Se leggi di mattina, per tutta la giornata ti senti dentro questa corda che assomiglia a un groppo in gola che non riesce a sparire fino a sera, e quando ti addormenti ci pensi ancora.
    Nicola, davvero Grazie.

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