La luce dei monti, oltre la tragedia
Complice l’ora legale alle 7.35 avevo già gli occhi aperti; ho carezzato la mano di Susanna per svegliarla. Alle 9 avevamo appuntamento con Luca e Francesca per andare a Norcia, insieme ad Andrea.
Perché andate a Norcia? Avevano chiesto gli amici ieri sera mentre eravamo in giro in centro. Semplice: andiamo a pranzo, abbiamo prenotato ai Priori. Andiamo a mangiare il tartufo e – se c’è tempo – facciamo una passeggiatina lì intorno. Poi accompagniamo Andrea a Todiano a vedere come sta casa sua e di Angela.
Voglia di normalità, nonostante tutto, nonostante il terremoto. Soprattutto voglia di dimostrare, con un piccolissimo gesto, che Norcia e i Sibillini non devono essere abbandonati, specialmente da chi – come noi – lì si sente di casa.
Alle 7.40 i vetri delle finestre hanno iniziato a tremare. La scossa più forte che abbia mai sentito. Le pareti scricchiolavano, siamo saltati su e siamo andati verso la terrazza. Ho fatto in tempo ad appoggiarmi all’infisso della portafinestra e l’ho sentito muoversi. Poi tutto è finito.
Uno sguardo a Twitter, alla Tv. Non parlavamo. L’inviata di Sky c’ha portato a Norcia molto prima di quanto avessimo programmato. I crolli al teatro, la gente terrorizzata sul corso e poi la piazza. Donne e uomini in ginocchio intorno alla statua di San Benedetto; la telecamera si gira verso la basilica. Era come se fossimo lì. Dove saremmo dovuti essere fra meno di due ore. Un sospiro: ecco la facciata, la basilica è in piedi. No, aspetta. L’operatore fa altri due passi di lato. Dietro la facciata non c’è più nulla.
Non mi vergogno di dire che ho pianto, in bagno, mentre mi vestivo.
A Norcia non siamo andati più, ma ci siamo stati lo stesso tutto il giorno. E abbiamo pensato tanto, a tante cose.
Al legame tra la nostra città, Terni, e la Valnerina che ora mi sembra più forte che mai, anche se negli scorsi decenni, nel secolo scorso in molti l’hanno voluto dimenticare. Alle nostre montagne, ai nostri Sibillini dai mille sentieri squarciati. Alla gente della montagna umbra e marchigiana, fratelli e sorelle. Alle chiese, alla terra dei campanili e delle torri che non ci sono più. Ai monaci di Norcia, a padre Cassian che tante volte ha fatto pregare anche me – che cattolico non sono – officiando la messa con il rito tridentino nella basilica di San Benedetto, mentre i suoi confratelli intonavano il Gregoriano tra il profumo d’incenso, restituendomi al senso del sacro. Ai rifugi, alle creste e alle vette dove ho passato le giornate più libere della mia vita. Ad Alessandro che schivando i massi è andato a riprendere la mamma a Cascia. Al senso d’impotenza dello stare qui, a cinquanta chilometri senza poter far nulla. Ai bus che portano via la gente di montagna verso il mare e il lago.
Poi siamo andati ad Arrone a guardare la luce splendida dei nostri monti. Splendida oltre ogni tragedia. Come una speranza. Una speranza di bellezza che non si spegne.
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