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La festa della repubblica strapaesana d’Appennino

Il 2 giugno, nella festa della repubblica strapaesana appenninica, non suonano le fanfare, ma solo le bande di ottoni un po’ sfiatati. Non ci sorvolano le pattuglie acrobatiche, ma i voli intersecanti delle rondini.
Il 2 giugno, nella festa della Repubblica italiana, cade anche, più o meno casualmente, quella di Sant’Erasmo, che si celebra con altrettanta solennità su una delle infinite cime, sopra uno dei mille paesi d’Appennino. Con una prospettiva, una volta tanto, inversa: siamo noi, da quassù, a dominare gli spazi delle valli e delle città, distanti, sottostanti e sfuocati in lontananza, in secondo e terzo piano. E a benedirli, nonostante tutto.

Sopra un prato fiorito, innaffiato dalle piogge abbondanti di una finalmente irrigua primavera, nella realtà profumata, montana e paesana, sfilano le truppe del borgo, con il parroco in costume da domenicano bianco, alias druido appenninico, seguito dal consiglio degli anziani che mirano dall’alto, delimitano e rinominano i territori a memoria passata, presente e futura; seguono le mamme, i padri di famiglia, i bimbi in ordine sparso, con cani saltellanti e abbaianti, finalmente liberi da guinzagli e defecazioni concordate. Mancano, alquanto ingiustificati, giovani e giovanissimi, restati forse nei loro gusci a esplorare realtà globali e virtuali, poco avvezzi, per ora, a santi, scarponi, orizzonti e visioni.
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Qui invece s’incontra, si ride, s’abbraccia, si celebra, si suda, si mangia, si prega e s’impreca e si guardano il monte e la valle in un misto inconscio d’antico-antico, d’antico, di moderno e di contemporaneo, che lo strapaese strapazza e mescola con una qualche nota di sublime letizia.

Come quelle della banda del paese che intona in alternanza straniante e pungente Gershwin, Te Deum e Fatece largo che passamo noi. E poi il poeta in versi vernacolari che impone i dazi all’uso del linguaggio e gli rimette i piedi per terra con quel suo parlar dolce e rude che sgambetta e sberleffa la neolingua infame, globalizzante mostro antipaese.

Dopo il suono della campanella che spezza il tempo, come sempre, il profumo delle ginestre è soverchiato dall’aroma delle ciambelle calde e croccanti, cibo circolare e altrettanto inconsciamente votivo. Più tardi subentrano i grassi effluvi degli arrosti di salsicce e animelle, mentre le pecore e le bufale han già prodotto pecorini e mozzarelle che ingrassano non solo la tavola.

Tutto è come deve essere, com’era e come sarà. Ma solo per un po’. Finché la bolla non scoppierà. Ma intanto godiamocela, igitur, e perbacco.

Si scende nei boschi di lecci e di pini, fino al primo villino, nel cui giardino il proprietario ha piantato oggi una bandiera bianco rosso e verde, come finora hai visto fare solo negli States o nel Nord del tuo stesso continente che qualcuno ancora s’ostina a chiamare Europa.

E qui, finalmente, davanti a questa bandiera, in questo giardino lontano da quelli quirinalizi, con i nanetti di plastica al posto delle statue di marmo, la festa del Paese e la festa del paese, s’incontrano e s’abbracciano. Evviva l’Italia strapaesana e appenninica! L’unica Italia che resiste. Più o meno consapevolmente.

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