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Non spegnete la Valnerina, non spegniamo i nostri monti

Si può sopravvivere mangiando un formaggio che non sa di nulla, comprato a 0,99 centesimi al Discount. Oppure si può gustare un formaggio di capra, valutare la stagionatura di una ricotta salata, o la freschezza di un primo sale, fermandosi a parlare con il pastore, ascoltando la sua storia e le sue fatiche, diventando suo sodale, camminando sulla montagna col suo gregge.
Si può placare la sete bevendo un vino dal tetrapak, o una bibita energizzante. Oppure si può assaggiare il vino cotto, fatto con il mosto bollito contravvenendo alla normativa europea, in associazione a delinquere con un novantacinquenne che conosce i segreti dell’uva e ignora le pastoie della burocrazia.
Si può transitare per la Valnerina, valle d’Appennino centrale tra Marche, Umbria e Lazio, dando retta solo alle indicazioni del navigatore satellitare, facendo maggiore attenzione agli autovelox che agli eremi. Oppure si possono leggere i tre monumentali volumi di Mario Polia (“Tra cielo e terra”, EdiCit), e imparare da lui come interrogare i luoghi e gli anziani di questa valle solcata dal fiume Nera. Lasciarsi così ammaliare dai serpenti, specie dai regoli che abbafano, o difendersi dalle sdreghe che per volare usano cospargersi di strani unguenti. Scoprire come scacciare la fascinazione, il malocchio, facendo galleggiare gocce d’olio (extravergine) nella scodella d’acqua. Capire il senso di strani ululati nei boschi, cercando di distinguere se si tratti di un vero lupo, oppure di un mannaro, cioè di un uomo allupato.  E sapere dunque cosa fare se dalla finestra, in una scura notte di novembre, vediamo accendersi due occhi in mezzo al bosco. A quel punto se sentiamo un solo colpo alla porta, è meglio non aprire. Occorre aspettare che i colpi siano almeno tre: è il segnale che il mannaro è tornato in sé…forse.
E così, sopravvissuti allo spavento, impareremo di nuovo a consultare il calendario dei giorni e delle opere, e non il planning. Ci fermeremo a parlare con qualche anziano a Sant’Anatolia, Scheggino, Vallo, Cerreto, Ferentillo…e, insieme, ricorderemo che dopo la mantica delle cipolle del due gennaio inizia il ciclo dei mesi, tra sacro e profano. Con gli animali che parlano la notte dell’Epifania, le pasquarelle e la befana che vola, spirito dell’inverno, a seminare dolcetti, semi di rinascita; con Sant’Antonio Abate che, come un druido, benedice gli animali, a cominciare dal suo maialino cintato; con la festa della Candelora, della purificazione, eco dei Lupercalia, fino al carnevale che muore e alla lavanda dei piatti la notte prima della Quaresima e della Mezza Quaresima; dei fuochi di San Giorgio e di San Marco; delle Rogazioni come se ci fossero ancora i Robigalia; fino ai Sepolcri e al rotolarsi al suolo al suono delle campane di Pasqua; al fuori il verde e a lu Ciuccittu. Per poi arrivare al matrimonio degli alberi, al Piantamaggio e alla benedizione delle croci da piantare nei campi; e via fino a Santa Rita e ai fuochi dell’Ascensione, a Sant’Erasmo, al Corpus Domini; e su verso le feste della mietitura e del raccolto, del grano, della lenticchia e della canapa. Poi l’Assunzione di Maria, la festa di San Rocco, la vendemmia, la Madonna de la Cona e San Michele Arcangelo. E la ruota che gira ancora verso Ognissanti e San Martino, Santa Barbara, Santa Lucia e i fuochi solstiziali che annunciano i giorni del ciocco e del Natale.

Sì, è vero, quel mondo rurale dal quale sono nate tutte queste storie, queste feste, queste tradizioni, non esiste più. Ma è esistito. E i luoghi dai quali sono state generate queste immagini, queste fantasie, queste asprezze e queste dolcezze, sono sempre lì, in gran parte abbandonati, trascurati dal progresso che li considera inutili e marginali, dunque quasi intatti nel loro potere evocativo.

Perché sì, sono luoghi che invece producono, che sono produttori di senso.
Basta solo accenderli, come si fa con un computer, come si fa con il televisore. Il problema è solo trovare il pulsante, l’interruttore come si diceva una volta. Che non è visibile, non è sul telecomando, ma è dentro la nostra testa, qualcuno direbbe nell’anima.

La conoscenza delle tradizioni rurali è doverosa perché, se la Costituzione sancisce che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, il lavoro della classe rurale ha rappresentato e rappresenta un contributo determinante all’esistenza della nazione, alla sua storia, alla sua identità. Disconoscere ciò, significa non solo disconoscere la storia, equivale a negare l’anima dalla quale quel contributo è stato dolorosamente offerto. Significa allinearsi con le prospettive più cupe e desolanti del progetto di globalizzazione che, attraverso la negazione della storia, si propongono la negazione e la soppressione delle alterità, propiziano l’annientamento delle specificità, impongono la reductio ad unum, sostenuta e giustificata da un etnocentrismo cieco e spietato che costituisce il massimo peccato d’orgoglio della civiltà occidentale. (Mario Polia)

Ogni luogo della nostra montagna d’Appennino – se qualcuno è ancora in grado di sentirlo, leggerlo e raccontarlo con l’anima – produce diversità e specificità. E la diversità è l’unica speranza di sopravvivenza, anche  per la nostra specie. Insieme all’essenzialità.

Lu troppu e come lu troppu pocu, fa male

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