Il miracolo di San Vincenzo a Gabbio
Fine gennaio. Dopo tante nuvole e freddo, un sabato di sole. Il sagrato della chiesa di Gabbio è un prato verde brillante, un balcone sotto le pareti rocciose con vista mozzafiato sulla valle, verso i monti della Valnerina, dove tra i boschi fanno capolino torri e campanili, una volta a far la guardia, ora solo a mostrare che sono sempre in piedi. Come i vecchi che vanno a messa la domenica per far vedere a tutti che sono ancora vivi e zittire le malelingue che li davano per malati, o moribondi.
Anche Gabbio, piccola frazione montana del comune di Ferentillo, era dato per morto. Morta pure la sua chiesa, con la facciata che abbraccia le architetture romaniche, con il suo candore e la sua semplicità che sanno di assoluto.
Dicevano che non c’era più questa bella chiesa, e che i santi affrescati sulla calce alle pareti o nell’abside fossero volati via dal tetto sfondato da un masso, quando la ditta che faceva la bonifica della parete di roccia là sopra aveva esagerato un po’ con l’esplosivo.
E invece no, oggi il tetto è stato rifatto, più antico di prima. E’ vero: qualche santo lo hanno sequestrato, se lo sono rubato staccandolo dal muro quando qui si entrava e si usciva indisturbati. Ma gran parte della truppa è rimasta. E ora brilla, nell’oro, nel rosso, nei blu, nella meraviglia dei colori mescolati da qualche allievo dello Spagna o da chissà quale altro artista tra i tanti che hanno affrescato le chiese della Valnerina aggiungendo splendore e bellezza nella vita dei semplici.
Ci sono tanti santi qui dentro, Sebastiano, Paolo, Pietro, Antonio con il suo maialino cintato, c’è il buon Dio che incorona la Vergine sotto un sole che brilla grazie alle teste dei chiodi che l’artista vi ha conficcato per ottenere un effetto speciale, quasi divino. Però oggi in primo piano c’è San Vincenzo. E’ la sua festa, di questo santo di Saragozza, diacono e martire, forse non così importante come altri nella storia della Chiesa. Ma per la chiesetta di Gabbio sì.
Perché San Vincenzo ha fatto il miracolo. La gente è ancora qui, nonostante la chiesa fosse stata quasi distrutta, nonostante il paese fosse diventato un borgo fantasma. Oggi no, non più. Ci sono Pier che ha risistemato un po’ di case e ha aperto un’attività ricettiva, c’è il prete che non ha mai smesso di venire quassù a dir messa per San Vincenzo, anche quando la chiesa non c’era più, ci sono i figli dei vecchi abitanti di Gabbio che per l’occasione riaprono qualche casa, accendono il fuoco e cuociono i fagioli con le cotiche in un pentolone. Ci sono i Cantori della Valnerina che salgono da Ferentillo a cantare gli stornelli, pure quelli per Sant’Antonin di legno bissando la recente festa di Sant’Antonio del 17, c’è Sebastiano archeologo, guida turistica e rianimatore delle mille anime della valle, capace di resuscitare persino le mummie, c’è il Cedrav (il centro per la documentazione e la ricerca antropologica in Valnerina) con Agostino che riesce a spiegare i segni apotropaici, riconosce la saggina e le feste vere da quelle fasulle. C’è tanta gente comune, ci sono tanti paesani, qualche climber di passaggio che va a fare arrampicata sulle pareti poco più sopra. C’è convivialità e forse persino un po’ di comunità.
Mario Polia che tanto ha lavorato sul patrimonio demo-antropologico della Valnerina, nella sua bellissima ricerca “Tra cielo e terra” dedicata a questa valle, c’avverte:
Oggi spesso si fa folklore di recupero realizzato da entità che non hanno conoscenza o consapevolezza. La festa estrapolata dal contesto che le è proprio nella cultura popolare – ovvero essere evento celebrativo comunitario – diviene curiosità, scade nella moda culturale, data in pasto ai cittadini e diventa folklore borghese consumista, oppure folklore commerciale.
Dunque è vero, qui non ci sono più i vecchi abitanti di Gabbio, non ci sono i pastori e i contadini, c’è però un’altra comunità che in gran parte stasera non resterà a dormire in questo posto, non riaccenderà i fuochi nelle case di pietra e domattina non si sveglierà presto per governare le bestie nelle stalle.
Però qualcosa si è condiviso, non solo i fagioli, la porchetta, i buonissimi dolci col miele, le noci, le marmellate e le cantate allegre dei Cantori. Si sono condivisi il sole, il luogo e il suo senso del sacro, la gioia, le risate e il piacere di stare insieme qui e di esserne anche solo per un istante l’anima.
Dice ancora Polia:
Una cultura è vera fin quando è funzionale all’identità di un popolo ossia fin quando una tradizione vivente e operante ne tramanda i contenuti attraverso e oltre il tempo e le generazioni. La tradizione popolare cessa di essere tale quando il popolo cessa di riconoscersi in essa.
Grazie alla tradizione di San Vincenzo e a chi lavora per Gabbio e per Ferentillo e per mille altri piccoli borghi di montagna, la tradizione popolare dell’Appennino e della Valnerina ha ancora una piccola speranza di restare viva e di giocare un ruolo nel futuro delle nostre montagne e delle nostre valli. Aiutiamola con le nostre azioni, ogni giorno. Forse anche con una preghiera, religiosa o laica, non importa. Viva San Vincenzo! Viva Gabbio! Vivano i paesi che sembrano morti, ma non lo sono! Vivano in qualche modo, in qualunque modo. Ma vivano!
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IL SANTO DI SARAGOZZA….DA SECOLI FA MIRACOLI….W SAN VINCENZO.