E se l’Appennino facesse la rivoluzione?
Il terremoto è un frullatore. Ha rotto case, scuole, strade, ospedali, montagne. E ha rotto anche il tempo. C’è un prima, ma non c’è ancora un dopo. Il prima è nei ricordi, il dopo è troppo difficile da immaginare quasi che le nuvole di polvere alzate dal sisma non si siano ancora posate e non lascino intravedere oltre. Il presente, l’oggi, è confuso.
Il terremoto ha frullato l’Appennino e le teste dei suoi abitanti, creando rassegnazione, disperazione e rabbia. Però sta anche producendo energie tra chi scopre di appartenere a un luogo, a un territorio più di quanto avesse mai sospettato, tra chi – nonostante tutto – vuol restare attaccato a questa catena di montagne, di sicuro l’unica catena che può dare libertà e felicità.
Qui, dunque, tutto è stato rimescolato. Non tornerà mai come prima, ma non è detto che sia un male assoluto.
Perché? Com’era prima? Quando nell’agosto del 2016 la terra ha iniziato a tremare tra Lazio, Marche e Umbria, nelle regioni appenniniche tirava già una brutta aria. Abbandono e spopolamento delle terre alte sono roba vecchia: la gente sta andando via da decenni. Lo stato-azienda toglie i servizi perché ci sono pochi abitanti e dunque la loro erogazione non è economicamente vantaggiosa. Di conseguenza, senza servizi, senza welfare, altra gente se ne va. In una spirale nefasta che si porta via pure la cultura appenninica e un modo di vivere. L’interminabile sisma del 2016, con gli allontanamenti forzati, è dunque la catastrofe finale dello spopolamento. Ci sono stati 40mila sfollati, proprio nel cuore dell’Appennino. Molti non torneranno, o perché troppo anziani per vedere ricostruita la propria casa, o perché troveranno lavoro e opportunità altrove. Per le zone interne dell’Appennino centrale il terremoto rischia perciò di essere – letteralmente – il punto di non ritorno. Oppure potrebbe essere uno spartiacque: se ci sarà resistenza, se ci sarà un nuovo popolo d’Appennino, se ci sarà un dopo.
Il terremoto è una centrifuga che allontana dal centro delle proprie vite. “Dopo dodici mesi di albergo al mare c’è poco da elaborare progetti: per noi il futuro ancora non esiste”, dice Maria Luisa, sfollata del comitato “Con Arquata, per Arquata”. Un comitato nato in uno dei paesi più colpiti dal sisma, tra i Sibillini e Amatrice “per fare informazione, vigilare sulla ricostruzione, dare voce alle istanze della popolazione colpita dal sisma”. La gente di Arquata ha subìto una diaspora “è stremata per i ritardi, le prese in giro, le troppe passerelle dei politici”. La rimozione delle macerie è appena iniziata; la nuova scuola donata dalla fondazione Tempi Moderni e inaugurata dal ministro Boschi ha più che dimezzato il numero degli alunni. “Cosa ci torniamo a fare ad Arquata?”, dice Maria Luisa. E cosa ci tornano a fare gli anziani? Non c’è più nulla. Fra un po’ però saranno finalmente pronte le Sae. “So cosa significa essere di quel posto e se non prendessi la casetta mi sentirei di tradirlo”. E quindi, nonostante tutto, nonostante lo stato delle cose, Maria Luisa tornerà.
Lo stato delle cose, è una fotografia di paesi abbandonati in un territorio che diventa ogni giorno più triste, in mezzo a montagne bellissime e indifferenti. Lo statodellecose è anche un sito web (www.lostatodellecose.com) che raccoglie oltre 15mila immagini online: “Un progetto nato nel maggio 2016, e che doveva avere come soggetto principale la ricostruzione dell’Aquila, ma che poi, dopo il terremoto di Amatrice e quello di Norcia, ha allargato il suo raggio d’azione sia territorialmente che come contenuti”. Una novantina di fotografi italiani hanno condiviso la necessità di testimoniare, non solo durante l’emergenza, le condizioni in cui versano i territori del Paese feriti e disgregati dal terremoto. “Nella certezza che documentare attraverso la fotografia sia un prendersi cura dei luoghi”. Hanno spostato i loro obiettivi qua e là per il cratere, per i crateri, a documentare con la crudezza e la verità delle immagini quello che è stato e quello che è. Da una montagna all’altra d’Appennino, da un terremoto all’altro: colpisce il raffronto tra la situazione attuale di Amatrice, Visso, Ussita tra le macerie e quella dei borghi del terremoto del ’97 in Umbria e nelle Marche perfettamente ricostruiti, ma desolatamente vuoti.
“Il terremoto – dice Antonio Di Giacomo, giornalista, animatore del progetto – pone domande vive e emergenziali sul futuro del cuore fragile dell’Italia, dell’Appennino che non può essere trasformato in una terra di ghost town e neanche in un parco divertimenti ad esclusivo uso turistico”. Per questo è fondamentale non interrompere il racconto, per capire. Con le parole e le immagini. “Continueremo a documentare lo stato delle cose, finché ci saranno sguardi e intelligenze che hanno a cuore la ricostruzione necessaria dell’Italia ferita dal sisma”.
Una ricostruzione necessaria che è possibile solo partendo dall’ascolto e dall’analisi. Ci crede, in questo metodo, Gianluca Frinchillucci, terremotato marchigiano, antropologo e operatore umanitario nelle aree di conflitto. Prima però fa un’analisi impietosa dello scenario nelle regioni del terremoto. Troppi individualismi, troppa frammentazione, figli della cultura antica di queste terre e del recente modello di sviluppo. Il terremoto causa distruzioni e problemi disuguali nei territori: una casa è distrutta, quella vicina no, un paese è colpito più di un altro che pure sta a pochi chilometri. Tutto questo contribuisce a fomentare screzi e divisioni tra persone e comunità nell’assegnazione dei fondi, nelle tante beghe burocratiche che accompagneranno la gente d’Appennino nei prossimi anni, insieme ai disagi, alla rabbia, alle piccole invidie. E allora? “Abbiamo pensato di creare un laboratorio, più che un comitato”. Si chiama Laboratorio Sisma 16: “Proporremo ai sindaci e alle comunità del cratere di realizzare delle analisi statistiche sui loro territori, per elaborare modelli, per capire meglio cosa è successo e cosa sta succedendo”. Poi l’ascolto: “Vorremmo partire con un camper, fermarci in ognuno dei paesi di montagna del terremoto, guadagnarci la fiducia della gente e farci raccontare i loro problemi pratici, psicologici e burocratici. E costruire una squadra di giovani competenti che possa dare delle risposte”. Piccole cose e concrete. Ma solo dopo aver ascoltato, appunto.
L’Appennino resisterà, forse, anche grazie alle cooperative, ai suoi prodotti di qualità e al cibo slow, “ma solo ad una condizione – dice Sonia Chellini, vicepresidente di Slow Food Italia – solo se, da dentro e da fuori, lo si considererà un’opportunità e non uno svantaggio per il nostro Paese”.
Da ben prima del terremoto Slow Food sta discutendo con sindaci, Anci, produttori, cittadini un progetto per le comunità della spina dorsale d’Italia: gli Stati Generali delle Comunità d’Appennino. L’ultimo appuntamento è stato a Bibbiena con “Oltreterra, per una nuova economia di montagna”. Si è parlato delle cooperative di comunità e anche dei 235mila euro che Legacoop destina al sostegno delle nuove imprese cooperative nelle aree montane del terremoto (“perché la piccola cooperativa crea lavoro comune e reti sociali”), delle mense agricole da realizzare attraverso l’accordo tra produttori, allevatori di montagna e i Comuni per fornire cibo alle mense scolastiche, di gestione forestale e di come organizzare saggiamente feste e sagre, per favorire l’economia locale dei prodotti di qualità e della nuova legge a sostegno dei borghi montani.
“Il futuro dell’Appennino – dice Sonia Chellini – non può essere immaginato travolgendo quel che c’è”. Lo ripete anche lei: “E’ impensabile un Appennino solo turistico, con i paesi fantasma: davanti a tutto occorre mettere le esigenze dei residenti, quelli che ci sono ora e quelli che potrebbero arrivare, giovani e – perché no – anche migranti: l’importante è che capiscono il vantaggio di vivere in Appennino, dove è più semplice costruire reti sociali, a patto che si ponga attenzione a servizi, infrastrutture e normative speciali per incoraggiarli e tutelarli”.
L’Appennino resisterà grazie allo spirito d’iniziativa delle piccole comunità che non se ne sono andate, come quella di Campi di Norcia. “Con il paese distrutto abbiamo vissuto per mesi tutti insieme dentro la struttura antisismica della Pro Loco – dice Roberto Sbriccoli, ideatore di Back to Campi – e adesso con l’aiuto di tanta gente da tutta Italia la nostra comunità sta lavorando ad un progetto di valorizzazione turistica in autogestione e cercando di andare oltre i lacci della burocrazia per dare lavoro ai giovani del paese”. L’Appennino dei giovani, come gli animatori di TerreInMoto, “rete di associazioni, movimenti, cittadini, imprese locali, nata all’indomani del terremoto e che si è prodigata nella solidarietà, nell’informazione alle popolazioni colpite, nel rappresentare alle istituzioni bisogni e diritti”, o di tante altre reti solidali che non si rassegnano all’idea dell’abbandono delle terre alte.
Ruspe, mattoni e gru non bastano. Le azioni necessarie sono due: ricostruire e riabitare: se non c’è la prima azione la seconda è impossibile, ma se manca la seconda, la prima è inutile. O magari serve solo a qualcuno. Non alle comunità d’Appennino, le vecchie e le possibili nuove. Più è lungo il tempo in cui un borgo resta chiuso, zona rossa e disabitata, più forte è il rischio che quel borgo non si ripopoli mai più. Più è lungo il tempo in cui una comunità perde i suoi riferimenti, i suoi ritmi e le sue feste, più avanza il rischio del non ritorno. L’associazione EpiCentro è nata proprio per evitare questo. Ne sono animatori due maceratesi, Maurizio Serafini e Luciano Monceri, organizzatori del Montelago Celtic Festival sull’altopiano di Colfiorito. “Con Epicentro continuiamo a dare un contributo affinché la cultura dell’area dell’Appennino umbro-marchigiano e dei Sibillini non muoia”. Per tutto l’inverno ci saranno escursioni guidate, spettacoli ed eventi nei piccoli borghi di montagna: letture, teatro, musica. Obiettivo: “Fermare il genius loci, convincerlo a non volare via, far rivivere le vecchie storie e le leggende di queste montagne e le feste paesane, come quella della mela rosa dei Sibillini”. La montagna della domenica e la montagna del lavoro, quella dei turisti, degli escursionisti e quella dei residenti devono dunque necessariamente incontrarsi perché non possono vivere l’una senza l’altra.
In definitiva ci vorrebbe una rivoluzione culturale per l’Appennino, scrive Leonardo Animali, jesino che abita vicino Genga, ancora sulle pagine dello Stato delle cose, una rivoluzione di “quelli che stanno quassù, non per una resa passiva al destino, o perché vocati al sacrificio, ma perché hanno scelto di farlo, perché qui trovano le ragioni di un’idea di felicità, di un’etica che diventa pratica quotidiana”. Una rivoluzione “che veda protagonisti, agitatori, sobillatori, quelli che non se ne sono andati, quanti torneranno e quelli che, sebbene non siano nati qui, potrebbero arrivare. Una rifondazione civile, sociale, economica e etica di questa parte del Paese” dove “il terremoto, seppur nella sua catastrofica e tragica natura, può segnare, paradossalmente e provocatoriamente, una ripartenza”. Ma resta, forte, la raccomandazione sine qua non: il “noi” prevalga sull’”io”.
Così la narrazione dell’Appennino ferito continua con mille voci, grazie anche alla rete, e contribuisce a tenere vive le montagne. Una narrazione che arriva dalla voce della gente semplice, degli sfollati e dei resistenti impegnati a lavorare in prima linea nei campi, negli allevamenti, sulle montagne. E dalla voce di chi le montagne le frequenta, le abita e le percorre con sensibilità e attenzione. Tutte insieme, come scrive Paolo Rumiz, queste voci possono creare un grande canto del ritornonell’Appennino “simbolo di un modello nuovo, utile a tutto il paese”. Un ritorno al futuro, “Un ritorno alle radici, da rifondare sulla leggerezza, la frugalità e un rapporto slow col territorio”. Essenziale è trasferire la rete dal virtuale al reale: sentirsi parte di una terra frammentata, non solo dai terremoti, ma che è comunque una catena che tiene unita l’Italia, il Nord con il Sud, e che quasi dovunque ha gli stessi problemi e lo stesso sentire. Perché poi alla fine sono la terra che hai sotto i piedi, la percezione della sua bellezza e delle sue potenzialità a determinare quel sentire comune, a sostenere il lavoro e lo sforzo di chi cerca di riabitarla, ad affascinare chiunque la viva questa terra d’Appennino, o semplicemente la traversi.
Il terremoto è un frullatore: l’Appennino si è mosso e continua a muoversi. Si spera verso qualcosa di nuovo e di bello, anche se bisogna salire molto in alto per guardare il dopo, oltre la polvere delle macerie. Con fatica, come sempre qui.
Gli uomini sono come le formiche ricostruiranno come nuovi pionieri!!