Patrioti d’Appennino, tra Enea e Ulisse
Siamo in tanti a venire da questi monti; sono in pochi a stare ancora lì. Siamo quasi tutti a portarcelo dentro, nei nostri geni se non nel nostro cuore, quest’Appennino.
Ci andiamo a sbattere ogni giorno, scalando le marce sulle strade in salita, o con un’occhiata, una semplice e distratta occhiata dalle nostre valli, dai nostri uffici e dalle finestre delle nostre case di pianura, dai finestrini dei Tir lungo l’autostrada, all’uscita dalle fabbriche e dai centri commerciali.
L’Appennino-patria è sempre lì e sembra volerci dire qualcosa, farci sapere che tempo farà quando indossa cappelli di nuvole, oppure che tempo è stato il suo tempo. Un tempo lunghissimo, che non è affatto finito, come non può essere finito il tempo di una montagna, “che disegna l’ombra di un’esistenza più antica”.
Come non può essere finito il tempo di quest’Appennino che spacca il Mediterraneo, che lo passa al setaccio come la rete di un peschereccio, che ne ha distillato gli umori e le culture.
Di quest’Appennino-ponte-barriera in mezzo al mare, non galleggiante, né navigante, ma fatto di monti talmente ben piantati nel suolo da avere radici di fuoco. Un Appennino scrigno di roccia, di foreste e di fiumi, percorso e seminato dai popoli all’alba della storia: terra di aborigeni, di visitatori e d’invasori, terra d’incontro e di scontro, di battaglie e di caos, di meraviglia e d’idee che hanno costruito e sorretto le fondamenta del mondo, fertile di storia, roccaforte di tradizione, di coraggio e di sfide.
Quest’Appennino lungo, talmente lungo da far credere a qualcuno che la sua lunghezza sia nemica dell’identità. Tanto da provare a spaccarlo in Nord, Centro e Sud, come il nostro Paese, che invece è Italia perché l’essenza d’Italia è nata in Appennino, che è Roma, perché Roma è nata anche lei dall’Appennino, dai suoi pastori e dai suoi dei.
Sì, è vero: l’Appennino è un filare di dialetti, di campanili, tanti quanti sono i suoi modi di fare il pane e la pasta. Un po’ Occidente e un po’ Oriente, con i suoi bacini idrografici a destra e a sinistra delle vette, che però si possono osservare dall’alto, dai crinali, rimettendoli insieme, come emisferi cerebrali, come parti di un unico essere, come fiumi che finiscono nello stesso mare. Lì, sulle sue vette, lo si capisce, lo s’intuisce con uno sguardo, che tutto si tiene, che tutto è incatenato da questa lunghissima catena dorata, una catena di libertà come nessun’altra mai. La catena d’Appennino…
Di quest’Appennino sulle cui cime, prima della spada dell’Arcangelo, sono stati venerati mille dei, nelle cui fonti hanno danzato diecimila ninfe, sulle cui querce hanno volato migliaia di fate, di Janare e di streghe, fino a planare davanti all’immagine di Maria.
Quest’Appennino selvatico, di terra dura eppure giusta, di lotte per il lavoro, di esistenze amare e dolcissime, di transumanze, di pascoli strappati ai boschi, di vacche e di pecore, quest’Appennino ballerino, danzatore di pizziche, tarante, saltarelli e terremoti, adulto nel guardare in faccia la morte, onorando sempre la vita, la fertilità, la primavera e la creazione.
Di questo Appennino dimenticato, dei paesi vuoti, delle colline smottate, dell’economia polverizzata e tartassata, dei terremotati ingiuriati, ma capaci d’indignazione, di alzare cartelli con i quali rivendicano mani che profumano di stabbio e di dignità; di questo Appennino che non ha più né la forza, né i numeri, per fare una rivoluzione.
Di questo Appennino che cela tesori talmente grandi da risanare tutti i debiti che il mondo intero ha con sé stesso, occorre essere patrioti in modo nuovo: astuti come Ulisse, pii come Enea.
Di Ulisse prendiamo la voglia di tornare, la nostalgia di Itaca. Di tornarci dopo aver vagato per il grande mondo e aver compreso che tutti i sentieri, tutte le rotte, anche le più ardite, alla fine riconducono da dove sei partito, ma finalmente diverso, capace di capire il senso del viaggio e quello della tua origine e di lottare per difenderla.
Di Enea onoriamo la scelta di lasciare la casa in fiamme, ma di portarne con sé la memoria, il padre Anchise sulle spalle, gli dei e i valori, per ricostruire l’idea della patria altrove.
Se non dimentichiamo da dove veniamo, se non oscuriamo il tesoro che ci ha trasmesso la cultura d’Appennino, la parsimonia, l’importanza dei beni comuni, il senso del limite e quello del sacro, l’essenzialità, allora forse saremo capaci di trasformare le abbandonate aree interne del nostro Paese in aree interiori e di far pace, così, con il nostro Appennino interiore, per utilizzarlo anche a valle, per provare a ricostruire una patria altrimenti destinata all’oblio.
L’Appennino di Ulisse e quello di Enea, l’Appennino di chi è tornato, di chi non tornerà e di chi c’è sempre stato, non è dunque solo la spina dorsale d’Italia, ma la sua ultima miniera di senso: “Se si salva l’Appennino (anche quello interiore), si salva l’Italia”.
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