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Gli Appennini di Vernon Lee, ovvero di Violet: una quieta tempesta

Eccentrica, innamorata dell’Italia, del Rinascimento, di Firenze, delle atmosfere gotiche e dei racconti fantastici. Violet Paget, amica di Henry James, frequentatrice di salotti letterari di prim’ordine, è una scrittrice nata in Francia, ma figlia di genitori inglesi, che ha voluto farsi scrittore.
Con lo pseudonimo maschile di Vernon Lee ha pubblicato molti saggi e racconti tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. A noi interessa Genius Loci, perche è un libro di emozioni legate ai luoghi e perché in alcuni casi questi luoghi sono quelli degli Appennini.

Violet Paget/Vernon Lee

Un’intervista impossibile*
Violet/Vernon la incontriamo a Firenze, in giro tra i banchi del mercato, inconfondibile, con quell’aria da straniera romantica e burbera allo stesso tempo, gli occhiali grandi e tondi che non nascondono gli occhi vivaci, il mento pronunciato, i capelli pettinati con una foggia mascolina.

Buonasera Violet, vorrei parlare un po’ con lei delle nostre montagne, le va?
“Guardi quel negozio di carbone!”.

Va bene, ma cosa ha a che fare con la domanda che le ho cortesemente rivolto?
“Molto: i negozi di carbone a Firenze sembrano l’imbocco di caverne nere, ma di solito il loro ingresso è contrassegnato da una sfilza di pigne e da fasci di rami di quercia, della famiglia del Quaercus Robur sa, proprio come quelli che Tiziano dipinse dietro il Duca di Urbino…”

E quindi?
“Carbone da legna per cucinare il cibo e ghiaccio per raffreddare le bevande: entrambi doni delle stesse zone che fanno tornare in mente l’amichevole frescura e le solitudini della parte mediana dell’Appennino toscano…”.

…Che lei ha amato molto…
“Sì, certo. E pensare che se lo si paragona alle Alpi, quest’Appennino sembra appena degno d’essere nominato…Ma tutta questa evidente inferiorità fa comunque di lui ciò che le Alpi non possono essere: montagne abitate, montagne dove, vivendo una vita comune, si può venire a contatto, quotidianamente, ora dopo ora, con le piacevoli caratteristiche dei luoghi di montagna: la solitudine, il silenzio, il senso di novità”.

Il senso di novità? In Appennino? In che modo?
“Semplicemente guardando: cogliendo l’eterno dramma delle nuvole e dei venti e gli improvvisi temporali. Si può essere non in via eccezionale, ma sempre, in solidale contatto con le loro forme”.

…Molto bello, ma non sempre è così semplice da cogliere questa sensazione…
“Guardi, ho detto queste ultime cose, ho parlato di queste emozioni, perché ne sono particolarmente convinta. Perché questi cari, accessibili Appennini, mi hanno insegnato che le montagne sono in continua attività e molto spesso…fanno qualcosa per noi”

E in che modo?
“Innanzitutto, come le dicevo, non sono mai prive di movimento, a cominciare da quando ci muoviamo noi e impediamo loro di chiudersi, o dischiudersi, facendo innalzare le cime, girare le pareti di roccia come fossero cancelli sui cardini e…lasciando precipitare le colline più basse, invisibili, entro le valli”.

E quando guardiamo l’Appennino stando immobili, che succede?
“Oh, molte cose: il movimento continua. Le gole, ad esempio, ogni volta che guardiamo in basso, sembrano raccogliersi e contorcersi, risucchiando i nostri pensieri come vortici. I loro profili più elevati, gli speroni, le cime invece ci tirano su, mentre lo sguardo segue le loro curve. S’innalzano e noi con loro, come su un’onda, come in sella a un cavallo, facendoci fare dei respiri di profondo piacere mentre li osserviamo…”

Sembra come cavalcare un’onda, come cavalcare l’Appennino, un’idea molto bella, perché, in qualche modo, l’immagine della nostra catena, dei monti lontani e azzurri, a volte, sembra confondersi con quella del mare in tempesta. Vuol dire questo?
“Le montagne d’Appennino si rincorrono, s’impennano, si rovesciano e corrono via. Si uniscono e cominciano a marciare e a danzare, se non a saltare, come giovani arieti ebbri di gioia. E quando viene la notte si coricano, come nel magnifico bozzetto di Watts. E mentre il buio aumenta e rimangono solo vaghi contorni, diventano inevitabilmente quiete, facendoci sentire, quando anche noi ci corichiamo, come se fossimo avvolti tra le loro ombrose pieghe azzurre”.

Questa è poesia…
“Tutte le montagne la ispirano, ma soprattutto i cari Appennini, le montagne che ci danno il ghiaccio e il carbone, come sembra aver intuito Shelley quando scrisse la breve poesia che termina con un’iperbole ben facilmente comprensibile a chi ha vissuto su questi monti: …e gli Appennini vagano con la tempesta”.

*Un’intervista impossibile, liberamente ispirata al libro Genius Loci, Sellerio (pag.129-137)

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