La fiorita d’ottobre
È una mattina di fine ottobre, come quella di quando qui c’è stato l’ultimo grande terremoto.
Sono salito sulla cima del monte Cappelletta seguendo i piloni arrugginiti della vecchia sciovia per abbracciare con lo sguardo tutto il Pian Grande.
Sono venuto a vedere la montagna vuota. Svuotata dal terremoto che ha inghiottito le case di Castelluccio; dal mito del progresso e della comodità che si è portato via gli abitanti; dal Covid che ha impaurito i restanti…
Che senso ha questo vuoto?
Scendo verso la strada provinciale e il silenzio è rotto dal rombo delle moto. Arriva un gruppo coi giubbotti di pelle. Si ferma sul bordo della strada nel punto più panoramico verso il piano. Fanno foto e selfie. Una si lamenta perché non c’è la fiorita.
È questo il senso del vuoto? Lo sfondo di un selfie?
Quando l’uomo e la montagna s’incontrano accadono sempre grandi cose, dicono.
Ma l’uomo e la montagna non sono mai stati così lontani come oggi e – probabilmente – non dipende solo da questioni geografiche, economiche e di distanziamento sociale. Piuttosto è un problema culturale.
Un oscuramento del mondo si verifica sulla terra ed intorno ad essa. Gli avvenimenti essenziali che concernono questo oscuramento sono: la fuga degli déi, la distruzione della terra, la massificazione dell’uomo, il prevalere della mediocrità.
(M. Heidegger, Introduzione alla metafisica)
Eppure questa che mi si apre intorno, a volerla leggere, a poterla sentire, non è una terra distrutta, ma è tutt’ora un luogo potente. Reca in sé la traccia degli dei, delle grandi madri, delle fate e dei demoni che l’hanno frequentata. Conserva la traccia di un altro mondo. Le transumanze, i pellegrinaggi, gli eremi, i castelli, le rocche, le chiese, le grotte, le fonti, i templi: il loro spirito, il rapporto tra uomini, donne, natura e cosmo.
I frequentatori della montagna sanno perché si seguono le tracce, i segnavia: lo si fa per curiosità, per arrivare in cima e poter guardare più lontano, per fermarsi in una radura accanto a un fuoco, per avvicinarsi a una visione che non illumini solo il passato, ma la nostra stessa strada nel presente.
Serve una rivoluzione interiore che, come ogni rotazione completa, ci riporti da dove siamo venuti. Ma che non ci riporti lì uguali a prima. Sarebbe inconcepibile. Perché abbiamo lo zaino pieno e pesante e non siamo quelli di prima. Però, se riusciamo a liberarci dalle cose inutili che abbiamo accumulato dentro quello zaino, forse scopriamo che c’è pure l’essenziale per continuare a camminare più leggeri sulle tracce e tra i simboli, per tornare a essere capaci di interpretarli e concepirli. Forse ritroviamo la mappa che ci riporta a casa. Nella nostra patria appenninica. Una patria apparentemente vuota, eppure talmente piena di significanti, di forme che rinviano a contenuti, al punto da traboccarne.
I Giapponesi pensano che non sia opportuno ricostruire l’antico tal quale, ma che tuttavia occorra ricostruire tenendo presente lo spirito del luogo, interpretando la sua perennità.
Osservo in silenzio il Pian Grande, il Vettore ammantato di nuvole, la cima del Redentore; scorgo Forca Viola, forse la gobba innevata del Bove: lo spirito del luogo è saldo e forte se si è disposti ad ascoltarlo con animo pulito come l’aria di qui e racconta infinite e utili storie di questo incantato paradiso del diavolo.
Succede qui, come altrove, nelle miniere di senso appenniniche, ed è come andare ad abbeverarsi direttamente al fiume quando le fonti sono secche.
Questo è il sentiero che riporta a casa, che ci riconduce a una patria interiore ed esteriore, che restituisce un senso al vuoto apparente della montagna. Che ci può aiutare nel lungo cammino verso una ricostruzione fisica, morale e spirituale.
Perché poi, a guardar bene, la fiorita sul Pian Grande c’è sempre, non solo in giugno. E forse la motociclista aveva ragione…
L’immagine di copertina è un’illustrazione di Mauro Cicarè, tratta dal volume “La battaglia del Pian Perduto – Racconto in versi di un pastore-poeta”, 2012