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Fiore di maggio

Lungo tutto l’Appennino centro-settentrionale, in Toscana e nelle Marche è diffusa la festa del maggio. Il Calendimaggio, o il Cantamaggio, il maggio sacro, quello profano con i canti di questua, affondano le radici nella notte dei tempi, nei floralia dell’antica Roma, nel culto delle divinità della terra, nel saluto ad una primavera ormai irreversibile, tappa fondamentale nel tempo ciclico delle stagioni per la civiltà contadina.


La notte del 30 aprile si gridava e si cantava di gioia per il ritorno della bella stagione, per il rinnovato miracolo della fioritura, auspicio di fertilità e di abbondanti raccolti. E molto spesso lo si fa ancora nei piccoli borghi delle Terre Alte e nelle campagne rinverdite.

C’è poi un caso speciale. E’ quello di una smemorata città d’Appennino, Terni, un tempo legata alla sua valle, alle sue acque veloci e alla prorompente natura che la circonda. Questo borgo d’artigiani, di contadini e di molte bettole, posto in un luogo paradisiaco, fu scelto ormai più di 130 anni fa come sede delle più grandi industrie del nuovo Regno d’Italia. Una scelta che cambiò la città, la sua gente, la sua aria e le sue acque.

lapideMiselli

Eppure ci fu un momento di passaggio tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, durante il quale qualcuno non si rassegnava a veder tagliare le radici (e gli alberi!) così brutalmente. Poeti autoctoni, primo tra i quali Furio Miselli, divennero cantori della perduta rusticitas ternana che – secondo alcuni – “evolveva fatalmente” in un altro modo di vivere.
Miselli nel 1896 volle riproporre, quasi per dispetto, l’antico rito del Cantamaggio “che se celebrava da secent’anni” e – badate bene – convinse alcuni cittadini a salire sui carretti tradizionali, uscire dalla città, e a far rotta verso i casolari della vicina campagna, con gli strumenti musicali e gli stornelli della tradizione.

Poi accadde che la città crebbe ancora e si articolò nella sua complessità. E finì che qualcuno – con grande scandalo di Miselli – trascinò il carro agreste del Cantamaggio nella piazza centrale “tra le urla e gli schiamazzi della ragazzaglia”.

Così ebbe inizio il Cantamaggio cittadino, si potrebbe dire a causa di una sorta di violenza goliardica della città sulla campagna. Un Cantamaggio unico, sul destino e sull’essenza del quale ci si interroga da cent’anni. Una splendida contraddizione, se solo se ne prendesse coscienza: la festa della campagna nel cuore della città più industriale d’Appennino e del centro Italia.


Ora però sarebbe importante tentare d’arrivare a sintesi. Ora che Terni soffre una crisi ambientale ed economica, ma anche identitaria, senza uguali nella sua storia, sarebbe opportuno riprendere in mano questo cordone ombelicale mai del tutto reciso tra la città ed il suo territorio.

Nel Cantamaggio infatti, non ci sono solo la campagna, i suoi riti, i suoi profumi, i suoi sapori che entrano in città, ma ci dovrebbe essere anche la città che esce verso la campagna e la sua valle, la ritrova e la riconosce come parte di se stessa. Una valle, la Valnerina, che d’altronde soffre anch’essa d’abbandono, spopolamento e terremoti.

Ecco, forse sarebbe allora il caso di lasciar perdere la ricerca di significati esoterici e vetero operaistici. Il Cantamaggio ternano non può esser più la festa del dopolavoro delle acciaierie e non può diventare la celebrazione della raccolta differenziata dei rifiuti.
Il Cantamaggio sia invece quello per cui è nato: simbolo di nuova alleanza non solo ideale e culturale, ma anche economica, tra la città e la sua valle, tra Terni e il suo territorio che ora “fatalmente evolve” verso un nuovo modello di sviluppo centrato su un maggior rispetto dell’ambiente, dei suoi profumi, dei suoi fiori di maggio, i cui colori dovranno essere più forti e vividi delle polveri sottili e dei fumi che ancor oggi (ma forse non per sempre) inquinano la nostra valle.

Gn’anno de ‘sta nottata pe’ tutta la campagna nostra fino sull’urdimu pizzu de montagna è festa. Festa de soni e de canti che ‘ncumincia appena se fa sera e firnisce a jornu fattu“.
Non vi’ se che bellezza de nottata/
tutta la terra è na coccia fiorita/
che de fronne e de rose s’è ammantata.
F. Miselli

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