Montagna madreOltre il terremoto

Due yurte sull’Appennino (tra Einaudi e la Procura della Repubblica)

Un giorno di un anno fa alcuni amici hanno camminato in Appennino, come tante altre volte. Il sentiero però era proprio nel cratere del terremoto del 2016, partiva da una yurta e arrivava a un’altra yurta.

In mezzo ci sono non più di 25 chilometri di montagna tra Campi di Norcia, Visso, il Bove e Macereto. In comune, tra le due yurte e la gente che le ha portate qui, c’è la voglia di reagire al terremoto e allo spopolamento di questa meravigliosa e sfortunata terra. Fu una bella giornata, terminata con una grande festa nelle nuove stalle dell’azienda Scolastici a più di mille metri d’altezza, tra musica, formaggi e speranze.

Eppure oggi, un anno dopo, quelle yurte sono molto più distanti di quei 25 chilometri percorsi a piedi e rappresentano due delle tante e diverse facce di ciò che sta succedendo quassù. Una, la yurta di Marco Scolastici a Macereto è la protagonista di un bellissimo racconto pubblicato da Einaudi e sta diventando un simbolo di riscatto per chi resiste e per chi torna nelle terre alte d’Appennino. L’altra, la yurta donata alla Pro Loco di Campi, è sotto sequestro per ordine della magistratura, sigillata insieme ai progetti di rinascita di quella comunità.

Ma andiamo con ordine. Cos’è una yurta ce lo spiega Marco Scolastici.

Per i nomadi delle steppe mongole questa tenda è stata per millenni casa, patria, libertà e mappa dell’esistenza. Rotonda come la terra e circolare come il suo moto. La copertura rappresenta la volta del cielo, il foro al centro il sole.

Casa, patria, libertà e mappa dell’esistenza. Basterebbero queste poche parole per capire perché a diverse persone, che non si conoscevano, in diversi luoghi del cratere, è venuto in mente che le yurte potessero essere una soluzione provvisoria, mobile, ma soprattutto simbolica al dramma del terremoto.

Per Marco Scolastici la yurta di quaranta metri quadrati, piantata nella sua proprietà, di fronte all’azienda agricola sull’altopiano di Macereto, è stata un rifugio durante il primo inverno dopo il sisma, quello della grande nevicata, e il luogo dal quale è partita la sua personale ricostruzione, interiore e esteriore. E poi è diventata anche un punto d’incontro e di conoscenza con tanti altri cercatori del senso della rinascita nell’Appennino ferito, come Paolo Rumiz, che vi ha soggiornato nel suo cammino nelle terre del terremoto.

Anche per Roberto Sbriccoli, la yurta mongola comprata vicino Fabriano da un estroso respiriano, che si nutre a suo dire più d’aria che di cibo, e donata da un gruppo di vagabondi della Valnerina, è stata un piccolo simbolo, nel più grande progetto di “Back to Campi” che da quel maledetto ottobre del 2016 sta portando avanti instancabilmente, insieme ai suoi compaesani irriducibili. Loro non hanno abbandonato il paese distrutto, si sono rifugiati nella struttura antisismica della Pro Loco, hanno vissuto insieme il primo inverno e poi hanno iniziato a progettare il futuro. Così è nata un’area d’accoglienza “solidale” su terreni della Pro Loco, per far fermare i camperisti, per il momento, poi per realizzare un centro sportivo. Insomma un progetto affinché questa piccola comunità possa continuare a immaginare un futuro, qui.

“La yurta è sempre una buona soluzione”, dice Luca, lo stralunato fornitore di yurte a Marco Scolastici nel suo racconto. E poi l’altopiano di Macereto, Castelluccio, la Val Castoriana, con la loro selvaticità, i loro paesaggi non assomigliano un po’ alla Mongolia?

Forse sì. Però in Italia, e anche qui nel cratere, di diverso c’è la burocrazia. Che non viene giù neanche con il terremoto. Quella burocrazia cieca, nell’esercizio della quale il buon senso è finito nel cestino, oppure sotto quella pila di leggi, decreti attuativi, regolamenti e protocolli, proprio lì, nell’angolo della scrivania.

E così ora Roberto Sbriccoli e la sua Pro Loco si ritrovano accusati di vari reati riguardanti l’edilizia e il commercio, per non aver svolto – evidentemente – tutte le tante, tantissime pratiche in modo corretto. Forse.
Senza alcun forse, invece, occorrerebbe prendere atto che la situazione nella quale hanno operato Sbriccoli e la Pro Loco, con il sostegno di tante persone venute da tutta Italia, non era proprio definibile come normale…

Nell’angolo dell’area camper solidale della Pro Loco di Campi la yurta di Roberto Sbriccoli, insieme ai container dove sono stati collocati i servizi igienici è ancora in piedi. Ma intorno c’è un lungo nastro bianco e rosso e tanti fogli di carta che ne decretano il sequestro, diversi da quelli messi nella zona rossa, ma neanche tanto. Anche la burocrazia è un terremoto.

Così Roberto Sbriccoli dice:

“La stanchezza e il disorientamento a volte sono fortissimi: continuo a chiedermi se è sbagliato resistere per cercare di salvare il proprio paese, se quei sigilli fossero necessari e urgenti, o se i disguidi potessero essere regolarmente sanati con snellimento delle pratiche burocratiche. La solidarietà delle donazioni di chi crede in noi, di chi ci è venuto a trovare e poi è tornato da noi per amicizia, o forse perché – nonostante i ruderi – ha trovato qualcosa di bello in questi territori, mi spinge a non lasciare andare quello che abbiamo cominciato”.

Una yurta è sempre una buona soluzione. Forse trasmette anche un po’ di fierezza. Così Marco Scolastici conclude il suo racconto dicendo che dalla sua Itaca, alla quale è tornato, non se ne vuole più andare, nonostante terremoti, ciclopi e bufere.
Roberto Sbriccoli non si ferma per un sequestro e dice che non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta per la propria terra.

Strano che le tende dei nomadi mongoli siano amate da gente che sente così tanto le proprie radici. O no?

 

 

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