Appennino, la patria in una castagna
“Ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo“, cantava il grande Franco Battiato. E va bene anche per l’Appennino, che pure lui come il coro delle sirene d’Ulisse t’incatena, perché già di per sé è una catena e in quanto a incantesimi non scherza. A volte basta fermarsi a raccogliere una castagna lungo il sentiero, per poi girarsi senza capire più in quale parte di questa lunghissima catena ti trovi. Ed eccolo, l’incantamento, incatenamento…
Potresti essere a Miranda, con quel bel nome, tutta da ammirare, chiusa col suo pugno di case tra le mura a 800 metri sopra la Valle del Nera, in Umbria per una delle tante sagre del marrone, oppure sopra Sassalbo sulla via dei Lombardi tra immensi castagneti che salgono verso il Cerreto, tra Liguria, Toscana e Emilia. O magari sull’Amiata, sulle pendici dell’antico vulcano brontolone a Piancastagnaio. O a Soriano sui Cimini vassalli d’Appennino, o ancor più giù a Patrica, sopra Frosinone, o in chissà quali altri castagneti montani.
Perché, in effetti, ci sono tante cose buone che uniscono l’Appennino, anche se spesso ce ne dimentichiamo, che ne fanno una patria. Tra queste ci sono le castagne. L’Appennino è un grande castagneto che lo tiene insieme da Nord a Sud. E siccome la castagna è pure un modo di vivere, perfino una cultura, la gente d’Appennino, quella che c’era, quella che ci sarà si ritrovava e si ritroverà in ottobre sui prati sotto i giganti dalle foglie seghettate, con le mani protette per non farsi pungere dai ricci a riempire sacchi di castagne, proprie o altrui… Per farne caldarroste, castagnaccio, polenta e farina, per impastare quello che una volta era il pane dei poveri.
Le castagne hanno sfamato generazioni d’italiani appenninici, montani e pedemontani. Anche se sono state trattate sempre un po’ da poveracce.
Persino lo squattrinato e squinternato conte Lello Mascetti in “Amici miei” di Mario Monicelli dopo aver abbandonato per mesi moglie e figlia, Alice e Melisenda, come villeggianti forzate a Gavinana sulle montagne toscane, le costringe a nutrirsi solo di castagne per sopravvivere senza soldi.
I castagneti oggi sono diventati meno curati, soffrono d’abbandono come tutto l’Appennino e hanno sofferto di malattie serie portate da batteri e insetti.
La produzione s’è ridotta, i prezzi si sono alzati e qualcuno ha provato a curare i castagni, o a impiantare nuovi e più produttivi castagneti. Così pare che, finalmente, si stia preparando una nuova stagione per la castagna appenninica, da non confondere con i marroni (che sono più grandi e senza pellicina interna).
Tornano le feste delle raccolte, non solo le sagre con i frutti importati, e qualche giovane inizia a ritrovare il gusto di reinventare i piatti tipici. Magari dopo aver passato le notti a badare al fuoco nei metati, i grandi essiccatoi di castagne.
Perché poi a mangiarle, le castagne, se ti concentri bene, senti tutto il sapore dell’Appennino, della sua storia e del suo futuro e non ti senti affatto abbandonato come la moglie del conte Mascetti.