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Le pietre che non ridono: Demetra e Persefone in Appennino

Percorrendo l’Appennino da Nord a Sud, tra i borghi, sulle strade di campagna, per le carrarecce o le sconnesse strade provinciali, a volte si ha quasi la sensazione di muoversi tra le pagine dei Fasti di Ovidio e poi tra quelle del Martirologio Romano, mescolate tra di loro  

L’opera di Ovidio elenca le feste e le divinità onorate nel corso dell’anno nell’antica Roma e nella prima Italia. Il Martirologio conserva invece la memoria dei nomi e delle opere dei Santi della chiesa cattolica romana.

Le cime e le valli d’Appennino sono ancora disseminate di pievi, abbazie, eremi, chiese, piccole maestà di campagna, sotto le quali si celano fosse votive, auguracoli, templi dedicati a divinità italiche, fonti una volta frequentate da ninfe, o caverne dove si praticavano culti ctoni.

Questi monumenti, questi segnavia di pietra sono spesso abbandonati, o dimenticati. Ma all’occhio di un osservatore attento, o semplicemente sensibile, riescono nella delicata e quasi magica operazione di incollare le pagine dei Fasti e del Martirologio, di sovrapporle, trasformandole in carta velina, lasciando in trasparenza la pagina di sotto, oppure quel che c’è sotto.

Questi intrecci, queste sovrapposizioni, mostrano con quanta forza, con quanta complessità con quanti livelli di lettura, attraverso miti, archetipi e simboli, chi ci ha preceduti su queste montagne di mezzo, avesse affrontato la ricerca di un filo conduttore nella umana, disperata e meravigliosa ricerca del sacro.

I segnali disseminati nei pagi e nei borghi d’Appennino sono per lo più pietre: dovremo tornare a interrogarli uno a uno, prima o poi, per ritrovare la strada, per illuminarla. 

La pietra che non ride, era l’Ἀγέλαστος πέτρα (agelastos petra) sulla quale sedeva disperata Demetra in cerca della figlia Kore Persefone Proserpina rapita da Ade. Essa era la pietra che non riflette la luce, che separa il mondo dei vivi da quello dei morti.

L’Ἀγέλαστος πέτρα segnalava che il mondo era entrato nell’opacità. Per uscirne si poteva fare una sola cosa: ridere.
Demetra rise grazie all’intervento osceno di Baubò. Ma non fu la sola a ridere: con lei fu tutta la terra a ridere (1).

Tutta la terra rise, illuminandosi, splendendo di luce riflessa superando l’acme della crisi cosmica. Senza il riflettersi della luce, d’altronde, il mondo non potrebbe continuare a lungo, la primavera non tornerebbe.

Così il mito insegna che il riso è la vita e che la vita illumina la materia.
I luoghi magici e abbandonati d’Appennino con le loro pietre che non ridono più, sono come la pietra di Demetra, l’Ἀγέλαστος πέτρα.
Eppure sono ancora capaci di riflettere la luce. Basta riportarvi il sorriso, la vita, tornando alla cerca del sacro.
Lo stesso, in fondo, vale oggi per le nostre città, che attendono una nuova primavera, la liberazione di Persefone dall’Ade.

(1) cfr. Il Cacciatore Celeste, Roberto Calasso, Adelphi

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