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Sette Tibet d’Appennino tra Oriente e Occidente

In greco e in latino si parla del fascino come se fosse una brezza, un’aura spirante dalle persone o dai luoghi, che a volte cresce, diventa turbine, nembo, nube abbagliante, riverbero dorato, ingolfa e stordisce”. 

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Elémire Zolla, storico delle religioni e studioso di mistica, era un cercatore d’aure, tra Oriente e Occidente. In questo breve viaggio verso alcuni luoghi aureati dell’Appennino lo terremo come riferimento di vetta, insieme a Giuseppe Tucci, l’esploratore maceratese in continuo cammino tra i monti della Terra di Marca e il Tibet. Ma nella ricerca delle aure e delle estasi montane nelle regioni dell’Italia interna e centrale non possiamo che seguire anche le orme di Francesco d’Assisi, paragonato a un sole d’oriente, nella Commedia di Dante Alighieri.

“Di questa costa, là dov’ ella frange più sua rattezza, nacque al mondo un sole, come fa questo talvolta di Gange. Però chi d’esso loco fa parole, non dica Ascesi, ché direbbe corto, ma Orïente, se proprio dir vuole”.

Appennino, dunque, catena spartiacque tra Occidente e Oriente dove tutto s’incrocia nell’attraversamento dei valichi; montagne naviganti che custodiscono gelosamente tanti piccoli Tibet e, magari, qualche Shangri-la

Il primo Tibet appenninico è davvero minuscolo. Un pugno di case presso il monte San Vicino, nel Comune di San Severino, sopra Albacina di Fabriano, accanto a faggete secolari e a elevati balconi naturali dai quali si scorgono da un lato entrambe le coste dell’Adriatico e dall’altro i grandi massicci dell’Italia centrale. Elcito è un piccolo borgo di pietra aggrappato alla stessa roccia della quale sono fatte le case, oggi spopolato. Ma conserva una memoria fotografica della sua vita com’era, quasi fosse un seme da custodire e far rivivere nel futuro, seppur in altre forme.WP_20171226_10_25_55_Pro
Le comunanze per il taglio dei boschi, per i pascoli, per il forno del pane, la piccola scuola di montagna, la chiesa di San Rocco, le feste patronali, le processioni, il lavoro domestico. Tutto parla di una comunità capace di attutire disagi e dolori, che “che offre al villaggio previdenza e bellezza, sussistenza, conoscenza, gioia” come scrive Zolla, riferendosi però a un villaggio indiano, in un gioco di rimandi.  Così un’anziana abitante del paese, ora solo villeggiante estiva, ricorda i cinquant’anni passati qui, interrotti da un’esperienza in fabbrica dalla quale scappa per ritornare alle sue pecore, perché solo quella della montagna e del pascolo è vera libertà. Una riflessione semplice che rinvia alla sensazione percepita da Giuseppe Tucci sulla vita degli abitanti di un piccolo villaggio tibetano. “Noi corriamo che ci manca il fiato, loro hanno il tempo per dimenticare il tempo”.  I monaci tibetani portati qui, a Elcito, qualche anno fa proprio in memoria di Tucci, riconobbero questo luogo come la patria del cuore, con la medesima aura.

Il secondo Tibet appenninico è intorno alla vetta più elevata della catena, il Gran Sasso:  è l’altopiano di Campo Imperatore.

Fabrizio Fortuna Photography
Santa Maria della Pietà e il Gran Sasso (foto di Fabrizio Fortuna)

Per ammirarlo nel suo splendore e coglierne l’aura mistica c’è un punto di vista straordinario, la rocca di Calascio. Si raggiunge per Castel del Monte e Santo Stefano di Sessanio. Qui giunti, se si lascia vagare lo sguardo dalla rocca verso l’ottagonale candida e umanamente perfetta mole di pietra della chiesa di Santa Maria della Pietà e poi oltre, verso il più lontano e naturalmente perfetto gigante di roccia del Corno Grande, allora può capitare che si avverta il miracolo dell’aura. Di fronte alla bellezza assoluta delle ombre e della luce che si rincorrono sull’altopiano, sulle pietre squadrate e sulle rocce, la brezza genera il turbine interiore, il senso di estasi, probabilmente la stessa così ben descritta da Virginia Woolf in una memorabile pagina di “Gita al faro”.

Perdendo la personalità, si smarriva fretta, furia, agitazione e le saliva alle labbra una qualche esclamazione di trionfo sulla vita allorché le cose confluivano tutte in questa pace, riposo, eternità…spesso si sorprendeva seduta a guardare, seduta a guardare con il lavoro nelle mani, finché era diventata ciò che stava guardando, per esempio quella luce”.

Per esempio quella luce.

amava il sole come l’imperatore Giuliano e le montagne come i pastori d’Abruzzo.

Lo confidava su Giuseppe Tucci la sua ultima compagna, come si può leggere nel bel libro “Non sono un intellettuale” (a cura di Maurizio Serafini e Gianfranco Borgani – ed. Arte Nomade, 2017).
Tucci ha cercato il suo infinito in Oriente, come Zolla, ben oltre il colle del suo conterraneo Giacomo Leopardi, o – più semplicemente – come un pastore errante…

“…quando avete una carovana tutto è diverso vi sentite padroni del mondo, oggi qui, domani non sapete dove, dove c’è erba e acqua e dove v’incanta la bellezza dei luoghi. Soltanto allora trovate la libertà…quella dell’uomo che parla con le stelle e che contempla le montagne mentre si aprono al sorriso dell’alba”.

Per questo suo essere di molti mondi e forse di nessun mondo, Tucci era in grado di trovare il Tibet anche sulle montagne dietro casa. Ad esempio sul monte Autore, autoretra Lazio e Abruzzo, la vetta più alta dei Simbruini, sopra Subiaco, in un pellegrinaggio all’eremo della Santissima Trinità. Qui è il nostro terzo Tibet. E dopo essere tornato da lì, da questo altrove così vicino, scrive, come scriverebbe al rientro da un lungo viaggio in Oriente:

Diceva Ramacrisna che bisogna inginocchiarsi dove altri prima di noi hanno pregato, perché lì dio è presente. In certi luoghi, con quella vaga intuizione che ci fa accorti di misteriose presenze, l’uomo ha sentito di non essere più sulla terra: le leggi della natura sembrano in quella allentarsi, le nebbie che offuscano lo spirito diradarsi, le passioni si placano e cedono ad una dolce volontà d’amore, in una improvvisa trasparenza della mente, passato e futuro acquistano la nitida vivacità del presente e, per insolite operazioni che collegano le soglie dell’anima con il limitare del corpo, le malattie si sanano. Sono isole sacre,(…) in cui vige la certezza dell’impossibile (…), nelle quali abitando lo spirito di Dio…la terra comunica col cielo”.

La terra comunica col cielo anche in un altro luogo elevato d’Appennino a occidente dello spartiacque sulla piccola catena del Martani, in Umbria, tra Todi e Terni. Sulla cima del monte Torre Maggiore duemila e cinquecento anni fasolstizio2016, gli Umbri, gens antiquissima Italiae – che nei loro riti conservarono sempre l’eco della sapienza dell’India vedica donde provenivano – edificarono un tempio augurale che richiamava pellegrini da tutta l’Italia centrale. Questo è il quarto Tibet della nostra passeggiata appenninica.
Da qui uno sguardo a 360 gradi abbraccia luoghi d’Appennino distanti centinaia di chilometri. Qui si può stare con i piedi saldi su pietre squadrate da millenni, sopra una grotta da dove forse si udivano i vaticini più attesi.
Qui si può mirare il cielo cangiante di nuvole e colori, dall’aurora all’alba, dalle stelle alla Stella, tenendo insieme tutto, sopra e dentro la propria testa. E attendere la vibrazione dell’aura.
E con essa ascoltare l’eco da Oriente delle parole del Guru Narayana, già udite da Elémire Zolla nell’attesa della rappresentazione di un katakhali in quell’India così lontana eppure così vicina: “Sei l’assoluto! Dillo con un canto dispiegato” .

I canto dei pastori, non dell’Asia ma Sabini, ci fa incontrare finalmente Francesco, il Sole d’Assisi, in altre montagne dell’Appennino umbro-laziale, nel santuario di Greccio, piccola Lhasa in miniatura, nel quinto Tibet appenninico.
Greccio1Qui tra le verdi e scure leccete Francesco di Pietro Bernardone, di ritorno dall’Egitto volle ricreare la rappresentazione della nascita di Gesù, dando vita al primo presepe. Perché? Perché forse, secondo il semplicissimo Francesco, non c’era bisogno di fare le Crociate per conquistare la Terra Santa. La Terra Santa è dovunque, anche qui in Appennino, anche sotto questo costone roccioso di Greccio può nascere la luce, può suscitarsi l’aura del sacro. Ex oriente lux, ma l’Oriente è dentro di noi e l’aura può soffiare nella sua direzione, per indicarcelo.

Il sesto Tibet d’Appennino è la piana di Castelluccio di Norcia. E’ un Tibet ferito squarciato dal terremoto. Ma siccome dalla terra tutto rinasce, anche da quello squarcio germogliano colori nuovi, come i fiori di giugno, come dal ventre di Cerere, madre terra.
Simile a un altopiano asiatico, dove ti aspetti da un momento all’altro di avvistare una yurta, il Pian Grande sovrastato dalla mole del Vettore e dalla grazia del colle di Castelluccio, è pervaso in ogni ora da un’aura ammaliante, come le fate dei Sibillini. Paolo Rumiz, da viandante l’ha percorso subito dopo il grande terremoto.

laeffe_I-viaggi-di-Paolo-Rumiz_La-leggenda-dei-monti-naviganti“Il gruppo si rese conto di essere l’unica presenza in quella distesa tibetana e conobbe un attimo di strana, guardinga euforia. Non c’era nulla di simile sulle Alpi. Nessun luogo dove paura e incantamento, inferno e paradiso, tellurico e fertile, si sposassero in modo così intimo per garantire il ciclo vitale. Era quello sposalizio che andava narrato, prima che la sagra di primavera ricominciasse”.

Il settimo Tibet lo troviamo ogni volta che raggiungiamo una cima d’Appennino, quando finalmente possiamo guardare lontano, vicino, dentro di noi e avvertiamo quel soffio di appartenenza all’irrazionale, lo sradicamento dal velo dell’individualità e la confluenza panica nell’assoluto.

Il corpo dell’uomo vuole cibo, la mente assiomi, l’anima estasi, nota Zolla.

E il mio cuore una volta salito lassù non è più qui.

My heart’s in the Highlands, my heart is not here,
My heart’s in the Highlands, a-chasing the deer;
Chasing the wild-deer, and following the roe,
My heart’s in the Highlands, wherever I go.
Farewell to the Highlands, farewell to the North,
The birth-place of Valour, the country of Worth;
Wherever I wander, wherever I rove,
The hills of the Highlands for ever I love.

Un pensiero su “Sette Tibet d’Appennino tra Oriente e Occidente

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