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C’è un Appennino di Apollo che parla in albanese

C’hai messo un po’ a capire perché la rivista che hai trovato in giro si chiama Apollinea. Alla fine te l’ha spiegato un signore per strada: qui arrivarono i greci e queste montagne le giudicarono talmente belle da dedicarle al dio Apollo. Almeno così dice lui. Fatto sta che il Pollino è la montagna di Apollo e “Apollinea” è la rivista dell’ente parco.

Lo splendore dell’orrido
Un parco immenso, tra Basilicata e Calabria che racchiude uno dei grandi massicci d’Appennino. Selvatico forse più di qualunque altro, tanto da essere in alcuni tratti orrido – o orribilmente bello se preferite – come dicevano i visitatori wp_20161015_10_21_15_prosettecenteschi del Grand Tour: pensavano che la civiltà finisse a Napoli e di lì iniziasse la barbarie. Poi i “temerari” che continuavano il viaggio si stupivano di trovarsi in mezzo a montagne imponenti, verdi e sublimi, in un ambiente che ogni tanto ti fa pensare a paesaggi del Nord. E invece sei qui, quasi in fondo allo stivale, sulla groppa dei monti naviganti, in mezzo al Mediterraneo. Una striscia di montagne sottilissima e aggrovigliata, con tante cime dai nomi poetici o triviali: da Serra Dolcedorme al monte Grattaculo. Cime dalle quali non si vede il mare, no, si vedono i due mari. E allora anche tu, un po’ come i visitatori del Grand Tour, pensi di aver fatto bene a venirci.

Lo sguardo di Skanderbeg wp_20161015_10_08_01_pro
Anche perché hai scelto un posto strano come base. Un paese calabrese con i cartelli bilingui. E pure per questo, in mezzo a tante montagne, ti viene il dubbio di trovarti in Alto Adige o in qualche valle ladina. Ma a guardarle bene, queste scritte, non ci trovi niente di nordico. Semmai di balcanico. Perché sei in una delle piccole capitali della comunità arbëresh d’Italia, tra i discendenti di quegli albanesi che nel ‘400 lasciarono la terra delle aquile, fuggendo dalle persecuzioni dei turchi, dopo la morte dell’eroe nazionale Giorgio Castriota, detto Skanderbeg. Che peraltro appena entri a Civita/Çifti lo incontri subito, in forma di statua, con il suo grande faccione appuntito e barbuto che ti guarda non sai bene se con ostilità, o fierezza.

Il ponte, le capre e il diavolo
Invece in paese, in questo borgo che ha poco più di mille abitanti, arroccato come un presepe sopra le gole del Raganello, il dubbio di essere accolto con ostilità te lo togli subito. Non appena ti riconoscono come visitatore “attento”, non perdono tempo e iniziano a raccontarti la storia, le storie e wp_20161014_19_27_00_prol’ambiente che ti circonda. Intanto ti indicano la prima inevitwp_20161014_16_54_54_proabile escursione nelle gole, anzi nel canyon sottostante il paese. Dove arrivi in mezz’ora, in un paesaggio mozzafiato che culmina in un classico ponte del diavolo, costruito nel medioevo per superare il Raganello e crollato poche decine d’anni fa (per lo sconforto delle capre che – come mostra una singolare foto d’epoca – restarono alquanto interdette). Ma poi per la gioia delle stesse capre, dei residenti, dei turisti e forsanche del diavolo, venne ricostruito in tempi rapidi e stupefacenti per il nostro Paese, “più antico di prima”, come è capitato al ponte confratello e più famoso di Mostar in Bosnia.

Le icone del papàs
Siamo ormai dunque in pieno clima balcanico e l’incontro con l’ex parroco (o papàs) del paese te lo conferma. Si parla dell’eparchia di Lungro, di rito greco-bizantino e si finisce per entrare in una grande chiesa dalle forme esteriori latine, ma dal cuore ortodwp_20161014_19_47_01_proosso. Estasiati di fronte all’iconostasi e dalla sua teofania, informati della rimozione delle statue non conformi al senso del sacro bizantino, ammaliati dai simbolismi delle icone che le hanno sostituite, rassicurati sul fatto che l’acqua del fonte battesimale dove vengono immersi i neonati, comunque, viene riscaldata, ci viene perfino fatto notare che il Cristo degli ortodossi è sempre raffigurato trionfante e non in croce. Di questo pensi che – quantomeno – l’umore dei fedeli ne tragga giovamento.

Mangia, bevi e parla arbëresh
Con le icone, il ponte e le gole nel cuore, a Çifti non resta che pensare a soddisfare la propria di gola. Perché ogni paese d’Arberia ha la sua cucina d’Arberia. Così scegli un posto dall’insegna monolingue, ma in arbëresh, “Hami e pimi”, per certi versi didascalico, visto che vuol dire mangiamo e beviamo. Ma naturalmente parliamo, pure. Perché qui tutti hanno da raccontare qualcosa, su queste montagne e i loro antenati che le scelsero perché tanto assomigliavano a quelle della loro patria transadriatica. Parliamo pure della loro lingua che no, a scuola non s’insegna neanche qui in wp_20161015_08_47_23_propaese. E non ci sembra una bella cosa. Però gli anziani la parlano e anche qualche ragazzo. Fatto sta che questa lingua non ha molto a che fare, ti dicono, con quella che si parla oggi a Tirana. L’albanese d’Arberia sta a quello attuale come la lingua di Dante sta alla nostra. Le piccole comunità albanesi in Italia hanno – per così dire – bloccato, o surgelato la lingua dei loro avi sulle serre d’Appennino, conservandola gelosamente come un marchio d’appartenenza intangibile. Non ci credete? Dice la gentile signora che ce lo sta spiegando…E come d’incanto nel piccolo locale si materializza una coppia di turisti di mezza età, albanesi veri, appena arrivati da Durazzo, via Puglia. E succede che tra una risata e l’altra cominciano a sperimentare la comprensione linguistica reciproca tra arbëresh e albanese. E spesso la lingua scivola e il nuovo e l’antico non si riconoscono.

Ceci e cucina molecolare
wp_20161014_20_22_35_proIl derby tra antico e moderno è appena iniziato. E in mezzo a queste montagne calabresi, appenniniche e albanesi, ti ritrovi sul piatto servito un Negroni molecolare. Ma non fai in tempo a stupirti che lo chef – immigrato di ritorno – ti riporta agli ingredienti base della sua montagna, tra ceci, uova e guanciale, seppur in veste glamour
E allora se bevi la bottiglia giusta sei pronto ad ascoltare tutte le storie da osteria, dai villaggi dove le architravi sono fatte di sogni ai sentieri verso i pini loricati, dal jazz alle danze arbëresh della settimana santa.

Troppo poco tempo per capire se quest’Appennino resistente resisterà ancora, se conserverà gelosamente la sua identità pur continuando ad aprirsi al mondo, con moderazione. O se questa identità evolverà in qualcos’altro. Per ora non resta che salutare la compagnia con un: viva la montagna del Sud! Viva l’Appennino intero!
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